da “il manifesto” del 13 Aprile 2005
La memoria di nonna Milka
Una visita ai luoghi dell’ex campo di internamento per rom e sinti di Agnone, in Molise, insieme a una sopravvissuta di allora. Più di 60 anni dopo, ottiene anche delle scuse La «zingara» e il sindaco L’anziana donna sopravvissuta dal campo di internamento di Agnone ricevuta dal sindaco Gelsomino De Vita, che le ha porto le scuse della cittadinanza
GIOVANNA BOURSIER
Milka ha 83 anni, l’espressione fiera e cammina incerta. Fa fatica quando sale sul pulmino, ma la maschera con una domanda: «dove stiamo andando?». E’ quello che si chiedono molti qui, all’alba, nel campo nomadi di Foro Boario, quartiere Testaccio di Roma, dove i rom si stanno svegliando. Mentre qualcuno prepara il caffè altri guardano stupiti il furgone sul quale c’è scritto «Osservatorio Nomade di Roma», anche se quasi tutti sanno che si tratta di uno strano gruppo di artisti e amici che da qualche anno frequenta questo luogo mettendo in relazione storie e persone diverse che oggi partono insieme. Quelli dell’Osservatorio usano la loro arte per creare spazi di comunicazione e lo fanno soprattutto nei luoghi di confine, sul mare, lungo i fiumi, nei campi sosta, perché, spiegano, «in un mondo occupato quasi esclusivamente dalla solitudine mediatica è soprattutto lì che le persone si spostano con le loro vite e culture da raccontare e mettere a confronto». Cosa che ormai avviene sempre più nella marginalità in cui si muovono masse di immigrati e nomadi.
Anche per questo Milka sale sul pulmino dell’Osservatorio che, intanto, si riempie: ci sono Aldo, un altro rom, Osama, un operatore cinematografico egiziano, Matteo, Silvia e Lorenzo. E qualcuno risponde subito a Milka: «Stiamo andando ad Agnone». Lei sorride, guarda fuori dal finestrino e, con l’aria di chi la sa lunga, dice: «Ma sì, lo sapevo. Ci andiamo per raccontare. Perché io ci sono stata ad Agnone, tanto tempo fa. Ma allora datemi un po’ di soldi». Tutti ridono e finalmente si parte.
Sconosciuto a torto
Agnone è un paesino arroccato sulle montagne del Molise, a nord fra Isernia e Campobasso, non molto conosciuto. Dovrebbe invece esserlo soprattutto per la storia che si trascina dietro da più di mezzo secolo: perché ad Agnone, durante il fascismo, c’era uno dei tanti campi di internamento italiani. Un campo in cui, almeno da un certo punto in poi, erano imprigionati soltanto «zingari».
Mentre la storia ufficiale è ancora lenta e ritarda a raccontarlo, lo fa Milka scendendo dal furgone, con i suoi 83 anni e la sua fatica, davanti all’ex convento di San Bernardino. Fa freddo, è stanca perché nel frattempo ha già parlato per due ore a un centinaio di studenti attentissimi, ma si incammina, decisa a ritrovare la memoria di quei luoghi e di quei tempi. E si arrabbia subito perché il cancello non è più lo stesso: «Non si entrava di qua, forse da là dietro», dice al sindaco e al professor Francesco Paolo Tanzi, che con le sue ricerche e i suoi studenti ha ricostruito tutta la storia di Agnone in un libro. L’edificio, una specie di cascinale fuori dal paese, a più di 800 metri d’altezza, adesso è un ricovero per anziane povere, prima e dopo la guerra era dei frati (ma il vescovo non ebbe dubbi a cederlo ai fascisti) dal 1940 al 1943 campo di concentramento. E, sicuramente a partire dalla seconda metà del 1941, c’erano rinchiusi solo rom e sinti di varie nazionalità: donne, uomini e bambini.
Dai documenti finora ritrovati si capisce che nel luglio del 1942 erano almeno 250 e che nel gennaio successivo era stata anche allestita una scuola per i bambini rom o, come si legge, per la loro «educazioneintellettuale e religiosa» che doveva «toglierli dalle loro abitudini randagie e amorali». «Io la scuola non me la ricordo», dice Milka un po’ seccata, «però avevo già 18 anni quando sono entrata qua dentro. Ero con mio marito e i miei figli. E poi c’era tutta la famiglia, la mamma, mio padre, che è morto dalla fatica due mesi dopo che siamo usciti, il nonno e gli altri, zii e cugini miei e di mio padre. Due sono morti, li hanno portati all’ospedale di Isernia. Anche il nonno è morto e il corpo non lo abbiamo più visto. Insomma c’erano tutti i parenti stretti e poi altri rom. Eravamo più di 100. Noi Goman stavamo al piano di sotto e i Bogdandi sopra. E quando siamo arrivati molti erano già qui, dal Veneto. C’erano le guardie intorno e non potevamo mai uscire. La mattina facevano l’appello, come succedeva in Germania. Ma i nostri erano italiani. Però non chiedetemi che anno era, io gli anni non me li ricordo. Ci sarà ben scritto. So che qui sono diventata maggiorenne, ho compiuto 21 anni in questo posto, perché allora mi hanno dato il sussidio. Prima non me lo davano, mi davano qualcosa per il bambino che avevo al seno, ma morivamo di fame. Mio marito andava in cucina a rubare le bucce delle patate mentre quelli che avevano il sussidio qualche volta uscivano a comprare qualcosa. Con due carabinieri, uno per parte. Compravano anche dai contadini che venivano con le ceste di frutta. Ma noi non avevamo soldi. La mattina ci davano il caffè che era acqua e poi sempre la minestra con le patate e la bieta. E con i vermi. Tutti i giorni c’erano i vermi, verdi e grossi che mi viene ancora da vomitare. Ma dovevamo mangiare per non morire. Ci davano 100 grammi di pane e la gente cascava per terra. Li ho visti entrare come leoni e diventare scheletri. Un signore si metteva contro il muro per non cadere. Era un omone, è diventato come un pezzo di legno. Così ci avevano ridotto. Per fortuna non ci hanno fucilato anche se tanti sono morti».
Milka sa che i rom non erano solo ad Agnone. C’erano altri campi di internamento in Italia e c’erano altri prigionieri «zingari»: di sicuro, per quanto se ne sa fino a oggi, erano rinchiusi a Ferramonti in Calabria, in Sardegna, alle isole Tremiti, a Tossicia in Abruzzo, a Boiano e Vinchiaturo, altri due campi del Molise. In base a un ordine fascista del settembre 1940 i rom venivano rastrellati nei loro accampamenti, portati in carcere e nei vari campi: «A noi ci hanno preso in un prato vicino a Pisa – continua Milka – mi sembra fosse estate ma non chiedetemi quando perché se non ricordo bene io non dico niente. Stavamo in quel prato, molti lavoravano il rame, anche mio marito. Eravamo giovani con i nostri figli, ma sono arrivati i carabinieri, e ci hanno detto di lasciare tutto perché ci portavano in un posto migliore. Ma ci hanno portato con il treno fin qua giù, hanno aperto il portone e ci hanno buttato dentro. C’erano i letti di ferro, materassi vecchi e due coperte a testa. E i pidocchi dappertutto che per me erano la cosa peggiore: li vedevi anche sul pavimento, grossi, e ci toglievamo i pezzi di carne per grattarci. A me è venuta una malattia che avevo tutti i buchi sulla faccia. D’inverno faceva molto freddo, non c’era il riscaldamento e l’umidità era terribile. Ti marcivano le ossa. Ancora adesso cammino male e questo me lo sono guadagnato qua dentro».
Milka comincia a girare dentro l’edificio, cerca di ricordare e ritrovare la sua stanza. Cammina traballante e con le mani sempre davanti. Non riesce ad entrare, si aggrappa al braccio di chi le è vicino, guarda restando sulle porte e dice che ormai tutto è diverso. «Le stanze – ripete – le stanze, le stanze». Va verso un balcone ed esce: «Qui si veniva e guardavamo fuori. Stavo qui e guardavo», sospira. Poi va verso il cortile: «Ecco la fontana, questa è rimasta uguale. Sono arrivata a vederla. Mi tremano le gambe come una foglia». La fontana è di ferro battuto, al centro del cortile. Milka si siede per riposare un po’. E piange: «Per mio marito – dice – lui soffriva più di me e dopo la guerra non è mai stato bene. Il signore se l’è preso 25 anni fa. Ma sai come piangevamo quando siamo usciti di qua? Io ci sono stata 3 anni ma eravamo tanti, non solo italiani, anche tedeschi, jugoslavi e spagnoli, che la sera qualche volta suonavano. E’ l’unico ricordo bello. Il resto è tutto buio. Un giorno sono arrivati i tedeschi, hanno spalancato il portone. Per fortuna c’erano i Campos, madre e figlio, che parlavano tedesco. Gli hanno raccontato come stavamo male e loro ci hanno aperto e ci hanno lasciati uscire. Lo so che i tedeschi hanno fatto male al mondo, l’ho visto alla televisione, eppure a noi ci hanno lasciato andare, senza mitragliarci. Siamo fuggiti subito, come fanno i conigli quando scappano dalle gabbie. Davvero – sorride – è la santa verità davanti a Dio. Poi abbiamo ricominciato a girare e battere il rame, abbiamo comprato un carrettino, anche un cavallino e siamo arrivati a Roma. Adesso voglio essere pagata per quello che abbiamo sofferto. Ora che ci sono i documenti c’è scritto, non si può più dire che non è vero».
Gli elenchi degli internati
Negli archivi della prefettura, infatti, il professor Tanzi ha trovato due elenchi di rom internati e anche altri documenti che raccontano la storia di Agnone. Milka chiede un risarcimento che le sarebbe dovuto. Come a tutti gli ex internati, come per qualcuno è stato fatto. Non per i rom, vittime negate prima ancora che dimenticate.
Un po’ più tardi, nella sala del consiglio comunale, il sindaco di Agnone, Gelsomino De Vita, area centrodestra, le chiede ufficialmente scusa. Dice: «Io chiedo scusa a Milka, a Tomo Bogdan che era con lei e oggi è rimasto a Roma perché sta male, al marito di Milka che non c’è più e a tutti gli altri rom internati qui nella nostra città. Ci sono silenzi che pesano sul popolo di Agnone. Lo abbiamo capito tardi, ma oggi la cittadinanza vuole chiedere scusa. Se accetti, Milka, io ti chiedo scusa». E lei: «Ma prego, prego signor sindaco, non mi dica così, non faccia così. Io le sono riconoscente. Io però vivo in una roulotte che è grande come questo tavolo, con i buchi e non ho niente. Nemmeno la cittadinanza, solo il permesso di soggiorno. Sono ancora straniera, dopo la prigionia e più di 60 anni in questo paese. E non ho mai staccato uno spillo da una siepe, anzi ho tolto il pane dalla mia bocca per darlo agli altri. Qui ad Agnone sono stata male e non si guarisce più. Vorrei una sistemazione e forse lei, signor sindaco, può aiutarmi».
Milka chiede un posto dove vivere, e dice che con lei lo chiedono molti altri rom. Il sindaco risponde che la aiuterà e le consegna un attestato: oltre alle scuse c’è scritto che è cittadina d’onore. Lei, uscendo, dice che non sa leggere, ma «mi ha fatto piacere vedere dove ho sofferto». Nessuno ha parlato di fascismo e di responsabilità politiche, ma almeno, come voleva l’Osservatorio, qualcosa è stato fatto mettendo insieme persone e luoghi diversi, testimoni e documenti. Un atto di verità unico e importante per il nostro paese: il riconoscimento di una persecuzione che diventa strumento di conoscenza contro l’indifferenza e i revisionismi. E le scuse di una città a una donna rom che, con i suoi 83 anni, ha fatto un po’ meno fatica a risalire sul furgone per tornare a Roma. Almeno per una notte.