La croce di cenere, tracciata sulla fronte di ogni cristiano, non è soltanto un ricordo della morte, ma inevitabilmente (per quanto tacitamente) una promessa di resurrezione. Le ceneri di un cristiano non sono più semplici ceneri. Il corpo di un cristiano è il tempio dello Spirito Santo e, per quanto il suo destino sia di conoscere la morte, ritornerà di nuovo alla vita, nella gloria. La croce tracciata con la cenere su di noi è il segno della vittoria di Cristo sulla morte. Le parole “Ricordati, uomo, che sei polvere e che in polvere ritornerai” non devono essere concepite come il facsimile di un qualche “sacramento di morte” (come se una cosa simile fosse possibile). Potrà essere un bell’esempio di stoicismo quello di ripeterci, semplicemente come memento, che siamo condannati a morire; ma non è certo cristianesimo. La dichiarazione che il corpo dovrà diventare temporaneamente polvere è la sfida a un conflitto spirituale, affinché la nostra sepoltura possa avvenire “in Cristo” e noi possiamo risorgere con lui per “vivere in Cristo”. Le ceneri di questo giorno non sono soltanto un segno di morte ma una promessa di vita a coloro che fanno penitenza. Eppure, al tempo stesso, le ceneri sono un’esplicita chiamata alla penitenza, al digiuno, alla compunzione. Di qui nasce il carattere, che può sembrare apparentemente paradossale, della liturgia del mercoledì delle Ceneri. Il Vangelo ci raccomanda di evitare le manifestazioni esteriori del dolore e, anche quando digiuniamo, di ungerci la testa e di lavarci il volto. Eppure veniamo sporcati di cenere sulla fronte! Ci deve essere dolore in questa giornata di gioia. È un giorno, come vedremo, nel quale la gioia e il dolore avanzano di pari passo, perché questo è il significato della contrizione: un dolore che assilla, che libera, che dà speranza e, di conseguenza, gioia. La contrizione è un battesimo di afflizione, nel quale le lacrime del penitente sono una purificazione psicologica ma anche profondamente religiosa, che lo prepara e lo dispone per le acque sacramentali del battesimo o del sacramento della penitenza. Questa sofferenza porta la gioia perché è, insieme, un riconoscimento maturo del peccato e l’accettazione di tutte le sue conseguenze: esso implica, quindi, un adattamento religioso e morale alla realtà, l’accettazione delle proprie condizioni reali; e l’accettazione della realtà rappresenta sempre una liberazione dal peso delle illusioni che ci affanniamo a giustificare per mezzo dei nostri errori e dei nostri peccati. La contrizione è una sofferenza necessaria, ma è seguita dalla letizia e dal sollievo, perché per mezzo suo otteniamo le più grandi benedizioni: la luce della verità e la grazia dell’umiltà. Le lacrime del cristiano penitente sono lacrime autentiche, ma gli portano gioia. Soltanto l’intima lacerazione, il dolore del cuore provoca questa gioia: lascia uscire i nostri peccati ed entrare l’aria pura della primavera di Dio, il sole delle giornate che precedono la Pasqua. Quando si lacerano gli indumenti non entra altro che freddo. La lacerazione del cuore, di cui si parla nella lezione di Gioele, consiste proprio in questo “strapparsi” da noi stessi e dalla nostra vetustas – la “vecchiezza” dell’uomo vecchio, logorato dalla monotonia e dalla banalità di un’esistenza indifferente – in modo da poterci rivolgere a Dio e gustare la sua misericordia, nella libertà dei suoi figli.
da Stagioni liturgiche, Rusconi, Milano 1977, pp. 110-111