“La guerra è proprio la scelta per le ricchezze: facciamo armi così l’economia si bilancia un po’ e andiamo avanti con il nostro interesse”: così Papa Francesco , poco prima del viaggio in Africa del 2015, rifiutando papamobili blindate e giubbotti anti-proiettili. E i dati confermano la verità delle sue parole: la spesa militare mondiale è cresciuta dell’ 8,4% nel periodo 2012-2016, arrivando ai 1.676 miliardi di dollari (cfr.Stockolm International Peace Research Institute). Si calcola che meno della metà di tale cifra basterebbe per conseguire la maggior parte degli obiettivi ONU per lo sviluppo: poco più del 10% di quanto si spende in armi nel mondo garantirebbe, ad esempio, un’istruzione gratuita e di qualità a tutti i bambini del mondo. La produzione e il commercio di armi: un settore dell’economia decisamente non in crisi, anzi in espansione, anche grazie alle scelte politiche fatte “in nome della sicurezza”. Un esempio, a mio avviso, sconvolgente, è costituito dai profitti che proprio le aziende europee di armamenti, coinvolte nella vendita di sistemi d’arma in Medio Oriente e Nord Africa, traggono dalla militarizzazione delle frontiere dell’UE: un mercato di circa 15 miliardi di Euro nel 2015 come risposta alla crisi dei rifugiati, appannaggio di Airbus, Finmeccanica (oggi Leonardo) e Thales, tra le prime quattro aziende esportatrici di armi. L’industria degli armamenti ha ottenuto poi gran parte dei 316 milioni di Euro dei fondi destinati dall’UE alla ricerca in materia di sicurezza. (cfr. Stop Wapenhandel, ong olandese). Gli scenari internazionali non sono tranquillizzanti. Per il 2018 è stato annunciato un aumento del 10% delle spese militari negli USA ( 54mld$, pari all’intero bilancio russo della Difesa) “per proteggere gli americani”, (sic Trump),con gli inevitabili tagli ad aiuti internazionali e ai fondi per l’ambiente, e nonostante il bilancio nominale del Pentagono sia già quest’anno di 582,7 miliardi di dollari, mentre la lotta al terrorismo e le operazioni militari all’estero vengono finanziate a parte, con decine di miliardi di dollari all’anno (cfr. Overseas Contingency Operations). Il Pentagono conta anche di sborsare altri mille miliardi per le armi nucleari e di rifinanziare programmi di armi ipertecnologiche: gli analisti del settore parlano già di sfida nordamericana a Cina e Russia. In Europa ha sorpreso la decisione del Governo svedese di ripristinare dal 2018 l’arruolamento obbligatorio per i diciottenni, pare in risposta al crescente riarmo russo (i nuovi cruise ipersonici, forse in funzione dal ‘20) e il bilancio militare lievita dell’11%. Le conseguenze sociali e geopolitiche di tali decisioni sono facilmente immaginabili e sembrerebbero ricondurci al più classico “si vis pacem, para bellum”. E in casa nostra? Dopo lo sconcerto per il voto contrario dell’Italia alla Risoluzione ONU, L.41, per un Trattato di messa al bando delle armi nucleari dello scorso ottobre[70-90 le testate nucleari nelle basi USA in Italia], apprendiamo, leggendo il rapporto annuale dell’Osservatorio MIL€X sulle spese militari italiane per il 2017 (Cam.Deputati confer.stampa15/2/’17) che l’Italia è al 12° posto a livello mondiale con i suoi 23,3 miliardi di euro (22 nel ‘15) di spese militari, oltre 64 milioni al giorno. Con un aumento del 2,2% negli ultimi dieci anni, è questo dunque l’unico settore che non ha mai subito tagli nonostante la crisi, rappresentando l’1,4% del PIL, a fronte, ad es., dello 0,8% speso per l’istruzione universitaria, postuniversitaria e per la ricerca. Già negli Anni ‘50 Eisenhower richiamava alla necessaria “vigilanza sull’influenza del complesso militare-industriale sia palese che occulta”, ricorda Vignarca (MIL€X; Rete Disarmo), sottolineando come tale comparto si alimenti della paura e «siacapace di influenzare le decisioni istituzionali, di evitare controlli, di innescare una pericolosa distorsione del sistema democratico». Si investono così in spese militari risorse sproporzionate rispetto alle esigenze della sicurezza nazionale, sovrastimando il finanziamento della difesa tradizionale e sottovalutando la necessità di destinare risorse alla cyberdifesa: sarebbe invece, secondo la NATO, il cyber-spazio il quinto dominio della conflittualità. Incidono sulla spesa complessiva il costo del personale (+7%) del nostro sistema militare, con una massiccia presenza di “comandanti” rispetto a pochi “comandati”, e la spesa per armamenti. Questa è a carico sia della Difesa che del Min. Economia e Finanze (v. Fondo per le Missioni estere e “Fondi per esigenze indifferibili”) e del Min. SviluppoEconomico: quest’ultimo dovrebbe sostenere lo sviluppo delle imprese italiane, ma utilizza 3,4 mld l’anno, cioè l’86% del suo budget, per programmi di acquisizione e ammodernamento di armamenti per la Difesa. Eppure le 112 aziende del settore hanno 50 mila occupati e 15,3 mld di fatturato, mentre il settore industriale civile (piccole e medie imprese), che ha 3,9 milioni di occupati e 838mld di fatturato, risulta di fatto penalizzato da simili scelte politiche. Ma l’Italia, il cui Governo ancora non chiarisce le reali necessità strategiche e i costi effettivi dei famosi 90 cacciabombardieri F35, è altresì produttrice ed esportatrice di armi, posizionandosi all’8° posto mondiale, ed è al 1° posto tra i Paesi dell’UE per esportazione di “armi comuni”. É inoltre l’unico Paese europeo ad aver fornito, nel biennio ‘14-15, pistole, revolver, fucili e carabine alle forze di polizia e sicurezza del regime egiziano di Al Sisis. Nell’ottobre ‘16, poi, la Procura di Brescia ha aperto un’inchiesta sulla vendita di armi all’Arabia Saudita. Numerosi voli-cargo sono partiti da Cagliari con sistemi d’armi (bombe aeree) per l’aviazione saudita prodotti dalla tedesca RWM Italia, con sede legale a Ghedi e stabilimento in Sardegna, bombe ritrovate nello Yemen, Paese colpito da circa due anni da raid aerei che hanno fatto migliaia di morti tra i civili. Le azioni di guerra e il blocco aeronavale imposto da USA e Arabia Saudita portano oggi l’OMS a dichiarare che due milioni di bambini yemeniti sono a rischio di morte per denutrizione e bombe, mentre molte strutture sanitarie sono state distrutte dagli attacchi aerei. «Mentre il popolo soffre, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti. E alcuni dei Paesi fornitori di armi sono anche fra quelli che parlano di pace», ci ricorda Papa Francesco , che domenica 19 febbraio ha richiamato alla nostra attenzione anche la tragedia dei 250 milioni di bambini-soldato. Ma non si tratta solo di esprimere solidarietà alle vittime della guerra: i casi sopracitati segnalano una palese violazione della legge 185/’90, fortemente voluta da associazioni e movimenti laici e cattolici per il controllo del commercio delle armi. Tale legge ne vieta la vendita a Paesi in guerra (Arabia S.) o che violano i diritti umani (Egitto, il caso Regeni ) e la mancata osservanza della stessa da parte delle Istituzioni, che sostengono la regolarità di queste operazioni, costituisce un allarmante segnale di involuzione della nostra democrazia. Tale violazione è stata denunciata anche da Mons.Ricchiuti durante la Marcia della Pace (BO 31/12/’16), promossa daPax Christi, CEI, AC. e Caritas sul tema del messaggio pontificio “La non violenza: stile di una politica per la pace”. Stridente il confronto tra l’appello di Mons.Santoro all’educazione dei bambini alla nonviolenza, anche con l’eliminazione delle armi giocattolo, e l’apertura -per la prima volta in Europa- ai minori di 14 anni della Fiera delle armi di Vicenza (HITShow11-13/2/17; cfr.OPAL-BS). L’idea che la sicurezza personale, come quella nazionale, debba essere affidata all’uso delle armi è confermata dal numero di licenze per porto d’armi rilasciate in Italia nel solo 2015: 1.265.484. Dal “particolare” al globale e viceversa: a quanti credono che la “nonviolenza, contemplativa, attiva e profetica sia la sostanza del cristianesimo” ed elemento caratterizzante tutte le religioni (Mons.Bettazzi), il compito di esigere verità nell’informazione e di impegnarsi per un disarmo dei cuori… e degli arsenali.
Daniela Negri