Il calzolaio e lo spirito maligno è un racconto dello scrittore russo Anton Pavlovič Čechov (in russo: Антон Павлович Чехов; Taganrog, 29 gennaio 1860 – Badenweiler, 15 luglio 1904).
Siamo nella notte di Natale
Era la vigilia di Natale. Maria da un pezzo già russava sulla stufa (1), nella lucernetta s’era consumato tutto il petrolio, e
Fëdor Nilov stava sempre seduto a lavorare. Da lungo tempo ormai avrebbe smesso il lavoro e sarebbe uscito sulla via, ma il cliente del vicolo della Campana, che gli aveva ordinato i tomai due settimane addietro, era venuto il dì prima, aveva sbraitato e ingiunto di ultimar gli stivali senza fallo per adesso, avanti mattutino.
– Vita da galera! – brontolava Fëdor, lavorando.-Gli uni dormono da un pezzo, gli altri se la spassano, e tu, ecco, come un Caino qualunque, stattene qui a cucire il diavolo sa per chi…
Per non addormentarsi inavvertitamente, traeva di continuo di sotto la tavola una bottiglia e beveva dal collo, e dopo ogni sorso torceva la testa e diceva forte:
– Per qual motivo mai, dite di grazia, i clienti se la spassano, e io son tenuto a cucir per loro? Forse perché loro han quattrini, e io sono un pezzente?!
Egli odiava tutti i clienti, specie quello che abitava al vicolo della Campana. Era costui un signore d’aspetto tetro, dai capelli lunghi, il viso giallo, in grandi occhiali azzurri e con una voce rauca. Aveva un cognome tedesco, tale che non saresti riuscito a pronunciarlo. Di che condizione fosse e a che cosa attendesse, era impossibile capire.
Quando, due settimane addietro, Fëdor era andato da lui a prender la misura, egli, il committente, stava seduto sul pavimento e pestava qualcosa in un mortaio. Non aveva fatto in tempo Fëdor a salutare che il contenuto del mortaio era d’un tratto divampato e arso con una viva fiamma rossa, mandando puzzo di zolfo e penne bruciate, e la stanza s’era riempita d’un denso fumo roseo, talché Fëdor aveva starnutito un cinque volte; e facendo ritorno dopo di ciò a casa, pensava – «Chi ha timor di Dio non starà a occuparsi di simili faccende».
Quando nella bottiglia non fu rimasto nulla, Fëdor posò gli stivali sulla tavola e prese a riflettere. Appoggiò la testa pesante col pugno e si mise a pensare alla sua povertà, alla penosa vita senz’un raggio di luce, poi ai ricconi, alle loro grandi case, alle carrozze, ai biglietti da cento… Come sarebbe stato bello, se a questi ricconi, che il diavolo li sbranasse, si fossero spaccate le case, fossero crepati i cavalli, stinte le pellicce e le berrette di zibellino! Come sarebbe stato bello, se i ricconi a poco a poco si fossero mutati in poveri, che non hanno da mangiare, e il misero calzolaio fosse diventato un riccone e avesse, a sua volta, fatto lo spavaldo contro un poveraccio di calzolaio alla vigilia di Natale!
Così fantasticando, Fëdor d’un tratto si rammentò del suo lavoro e aprì gli occhi.
«Ma guarda che storia!», pensò, esaminando gli stivali. «I tomai li ho pronti già da un pezzo, e tuttora me ne sto seduto. Bisogna portarli al cliente!».
Egli avvolse il lavoro in un fazzoletto rosso, si vestì e uscì sulla via. Cadeva una minuta neve dura, che pungeva il viso come con aghi.
Era freddo, scivoloso, scuro, i fanali a gas ardevano foschi e, chi sa perché, sulla via odorava di petrolio talmente, che Fëdor sentì un prurito in gola e prese a tossire. Sul selciato scarrozzavano avanti e indietro i ricconi, e ciascun riccone teneva in mano un prosciutto e un quarto di vodka. Dalle carrozze e dalle slitte sbirciavano Fëdor ricche signorine, mostrandogli la lingua, e gridavano ridendo:
– Pezzente! Pezzente!
Dietro a Fëdor camminavano studenti, ufficiali, mercanti e generali, e lo stuzzicavano:
– Ubriacone! Ubriacone! Empio ciabattino, anima di gambale! Pezzente!
Tutto ciò era ingiurioso, ma Fëdor taceva e sputava soltanto. Quando però gli venne incontro il mastro stivalaio Kuzmà Lebiodkin, di Varsavia, e disse: «Io ho sposato una ricca, da me lavoran dei garzoni e tu sei un pezzente, non hai nulla da mangiare», Fëdor non resse e lo inseguì. Lo rincorse finché non si ritrovò nel vicolo della Campana. Il suo committente abitava nel quarto caseggiato dall’angolo, in un appartamento all’ultimo piano. Per andar da lui bisognava attraversare un lungo cortile buio e poi inerpicarsi per un’altissima scala sdrucciolevole, che vacillava sotto i piedi. Quando Fëdor entrò da lui, egli, come allora, come due settimane addietro, stava a sedere sul pavimento e pestava qualcosa nel mortaio.
– Signoria illustrissima, ho portato gli stivaletti! – disse arcigno Fëdor.
Il cliente si levò e in silenzio prese a misurar gli stivali. Fëdor, desiderando aiutarlo, si piegò su un ginocchio e gli cavò uno stivale vecchio, ma subito balzò su e, sgomento, indietreggiò verso la porta.
Il cliente aveva non un piede, ma uno zoccolo equino.
«Eh, eh!», pensò Fëdor. «Ecco lì che storia.».
Per prima cosa sarebbe occorso segnarsi, poi lasciar tutto e scappar giù; ma subito egli considerò che lo spirito maligno s’era incontrato con lui per la prima e, probabilmente, l’ultima volta nella vita, e non valersi dei suoi servigi sarebbe stato sciocco. Egli si vinse e risolse di tentar la fortuna. Messe le mani dietro il dorso, per non farsi il segno della croce, tossicchiò rispettosamente e cominciò:
– Dicono che non c’è nulla di più impuro e di peggiore al mondo dello spirito maligno, ma io così l’intendo, signoria illustrissima, che lo spirito maligno è il più istruito che ci sia. Il diavolo, scusate, ha gli zoccoli e la coda di dietro, ma per contro ha in testa più intelligenza di certi studenti.
– Mi sei caro per tali parole, – disse, lusingato, il committente.
– Grazie, calzolaio! Che vuoi tu dunque?
E il calzolaio, senza perder tempo, prese a lagnarsi della sua sorte.
Cominciò col dire che fin dall’infanzia aveva invidiato i ricchi. Si era sempre sentito offeso che non tutti gli uomini vivessero ugualmente in grandi case e non andassero in giro su buoni cavalli.
Perché, si domanda, è egli povero? In che cosa è peggio di Kuzmà Lebiodkin di Varsavia, che ha casa propria e una moglie che va in cappello? Egli ha lo stesso naso, le stesse braccia gambe, schiena come i ricconi, e allora perché è obbligato a lavorare, quando gli altri se la spassano? Perché è sposato a Maria e non a una signora che odori di profumi? Nelle case dei clienti ricchi spesso gli accade di veder belle signorine ma esse non fanno punto attenzione a lui e solo ogni tanto ridono e si bisbigliano a vicenda: «Che naso rosso ha questo calzolaio!». E’ vero, Maria è una donna brava, buona, lavoratrice, ma lei, già, è poco istruita, ha la mano pesante e picchia forte, e quando capita di parlare in sua presenza di politica, o di qualcosa di sensato, lei s’immischia e ne dice di tremendamente grosse.
– Ma tu che vuoi? – lo interruppe il cliente – Ma io prego, signoria illustrissima, Ciort Ivanic’ (2) se tale è il piacer vostro, fatemi ricco!
– E sia. Ma solo, bada, in cambio tu mi devi dar la tua anima! Mentre i galli ancor non hanno cantato, va’ e firma, ecco, su questo foglietto che mi darai la tua anima.
– Signoria illustrissima! – disse Fëdor cortesemente. – Quando voi mi ordinaste i tomai, io non presi da voi denaro anticipato.
Bisogna prima eseguir l’ordinazione, e poi esigere il denaro.
– Be’, sia pure! – accondiscese il cliente.
Nel mortaio d’un tratto si accese la vivida fiamma, ne fluì il denso fumo roseo e si sentì il puzzo di penne bruciate e di zolfo. Quando il fumo si fu disperso, Fëdor si strofinò gli occhi e vide ch’egli non era più Fëdor, né un calzolaio, ma un altr’uomo, in panciotto e con catenina, in calzoni nuovi, e che sedeva in una poltrona a una gran tavola. Due domestici gli servivano le vivande, inchinandosi profondamente, e dicevano – – Mangiate con buon appetito, illustrissimo!
Quale opulenza! I domestici servirono un grosso pezzo di montone arrosto e una zuppierina con cetrioli, poi recarono su una teglia un’oca arrostita; dopo un po’, del maiale bollito con rafano. E come tutto ciò era nobile fine! Fëdor mangiava e prima d’ogni piatto vuotava un gran bicchiere d’ottima vodka, come un qualche generale o conte. Dopo il maiale gli servirono il tritello bollito con grasso d’oca, poi una frittata con grasso di maiale e del fegato fritto, e lui mangiava sempre e si estasiava. Ma che ancora? Servirono anche un pasticcio di cipolla e rape in stufato con “kvas” (3). «E come mai i signori non scoppiano per un tal mangiare?», pensava egli. A chiusa presentarono un grosso vaso di miele. Dopo il pranzo comparve il diavolo in occhiali azzurri e domandò, inchinandosi profondamente:
– Siete contento del pranzo, Fëdor Panteleic’?
Ma Fëdor non poteva proferir neanche una parola, tanto si sentiva gonfio dopo il pranzo. Era una sazietà sgradevole, greve, e, per svagarsi, egli prese ad esaminar lo stivale sulla propria gamba sinistra.
– Per simili stivali io non prendevo meno di sette rubli e mezzo. Che calzolaio li ha fatti? – domandò.
– Kuzmà Lebiodkin! – rispose il domestico.
– Chiamarlo qui, l’imbecille!
Ben presto comparve Kuzmà Lebiodkin di Varsavia. Egli si fermò in rispettoso atteggiamento presso l’uscio e domandò:
– Che cosa comandate, signoria illustrissima?
– Silenzio! – gridò Fëdor e batté il piede. – Guardati bene dal discutere, e rammenta la tua condizione di calzolaio, l’uomo che sei!
Tanghero! Tu non sai cucir stivali! Ti pesterò tutto il grugno! Perché sei venuto?
– Per i quattrini.
– Che quattrini ti s’ha da dare? Va’ via! Vieni sabato! Cameriere, dagliele sulla collottola!
Ma subito rammentò come con lui stesso si sbizzarrivano i clienti, e si sentì una pena in cuore, e per distrarsi cavò di tasca il grosso portafogli e prese a contare il proprio denaro. Denaro ce n’era molto, ma Fëdor ne avrebbe voluto ancor di più. Il diavolo in occhiali azzurri gli portò un altro portafogli, più grosso, ma egli ne volle più ancora, e quanto più a lungo contava, tanto più diventava insoddisfatto.
A sera il maligno gli condusse un’alta signora popputa in abito rosso e disse ch’era la sua nuova moglie. Fin proprio a notte egli scambiò baci con lei e mangiò panpepati. E la notte giacque su un soffice materasso di piume, si girò da un fianco sull’altro e non poté in alcun modo prender sonno. Si sentiva oppresso.
– Quattrini ce n’è molti, – diceva alla moglie, – da un momento all’altro ci vengono in casa i ladri. Dovresti andar con la candela a dare un’occhiata!
Tutta notte non dormì e si alzò di continuo per sbirciare se il baule era intatto. Verso la mattina bisognava andare in chiesa a mattutino.
In chiesa v’è uno stesso trattamento per tutti, ricchi e poveri.
Quando Fëdor era povero, pregava in chiesa così: «Signore, perdona a me, peccatore!». Lo stesso diceva anche ora, diventato ricco. Che differenza c’era? E dopo morte il ricco Fëdor l’avrebbero seppellito non nell’oro, non nei diamanti, ma nella stessa terra nera, come l’ultimo dei poveracci. Sarebbe bruciato Fëdor nello stesso fuoco in cui bruciavano i calzolai. Offensivo pareva tutto ciò a Fëdor, e per giunta c’era in tutto il corpo la gravezza del pranzo e, invece della preghiera, s’insinuavano in testa i vari pensieri del baule coi soldi, dei ladri, della venduta, perduta anima sua.
Uscì di chiesa crucciato. Per fugare i cattivi pensieri, egli, come spesso accadeva prima, intonò a squarciagola una canzone. Ma aveva appena cominciato che accorse un agente e disse, portando la mano alla visiera:
– Padrone, non possono i signori cantare in strada! Voi non siete un ciabattino!
Fëdor si addossò a uno steccato e prese a pensare: come distrarsi?
– Padrone! – gli gridò un portiere. – Non appoggiarti troppo allo steccato, sporcherai la pelliccia!
Fëdor andò in una bottega e si comprò la miglior fisarmonica, poi andò per la via sonando. Tutti i passanti lo segnavano a dito e ridevano.
– Ed è anche un signore! – lo stuzzicavano i vetturini. – Come un qualunque ciabattino…
– Forse che ai signori è lecito far disordini?-gli disse un agente. – Se almeno andaste in un’osteria!
– Padrone, fate l’elemosina per amor di Cristo! – urlavano i mendicanti, attorniando Fëdor da tutte le parti. – Fate la carità!
Prima, quand’egli era un calzolaio, i mendicanti non gli badavano punto, ora invece non gli davan pace.
E a casa gli venne incontro la nuova moglie, la signora, vestita d’una camicetta verde e una gonna rossa. Egli voleva farle dei vezzi e già aveva alzato la mano per darle una botta sul dorso, ma ella disse stizzosa:
– Villano! Screanzato! Non sai trattare con le signore! Se mi ami, fa’ il baciamano, ma di picchiare non permetto.
«Su via, è una vita maledetta!», pensò Fëdor. «Si è esseri viventi!
Non puoi cantare una canzone. né sonar la fisarmonica, né scherzare un po’ con una donna… Oibò!».
S’era appena accomodato con la signora per bere il tè, che comparve il maligno in occhiali turchini e disse:
– Be’, Fëdor Panteleic’, Io ho mantenuto esattamente la mia parola.
Ora voi firmate il foglietto e favorite seguirmi. Adesso sapete quel che significa viver riccamente, ne avete abbastanza!
E trascinò Fëdor all’inferno, dritto alla geenna, e i diavoli piombavano in volo da tutte le parti e gridavano:
– Stupido! Babbeo! Asino!
All’inferno puzzava terribilmente di petrolio, talché si poteva soffocare.
E di colpo tutto scomparve. Fëdor aprì gli occhi e vide la sua tavola, gli stivali e il lume di latta. Il vetro del lume era nero e dalla piccola fiamma sul lucignolo fluiva un fumo puzzolente, come da un tubo. Lì accanto stava il cliente in occhiali azzurri e gridava adirato:
– Stupido! Babbeo! Asino! T’insegnerò io, mariuolo! Hai pigliato l’ordinazione due settimane fa, e gli stivali tuttora non son pronti!
Tu pensi ch’io abbia il tempo di bighellonare da te per gli stivali cinque volte al giorno? Mascalzone! Bestia!
Fëdor scosse la testa e mise mano agli stivali. Il cliente ancora a lungo sbraitò e minacciò. Quand’egli infine si fu calmato, Fëdor domandò cupamente:
– Ma di che, signore, vi occupate voi?
– Io preparo fuochi del Bengala e razzi. Sono pirotecnico.
Sonarono a mattutino. Fëdor consegnò gli stivali, riscosse il denaro e si recò in chiesa.
Per la via filavano avanti e indietro carrozze e slitte con coperture di pelle d’orso. Sul marciapiede, insieme col popolino camminavano mercanti, signore, ufficiali… Ma Fëdor più non invidiava e non mormorava contro il proprio destino. Adesso gli pareva che ricchi e poveri stessero ugualmente male. Gli uni hanno la possibilità d’andare in carrozza, e gli altri di cantar canzoni a squarciagola e sonar la fisarmonica, e in generale una sola e stessa cosa aspetta tutti, non altro che una fossa, e nella vita non c’è nulla per cui si possa abbandonare al maligno una sia pur piccola parte della propria anima.
NOTE:
1) Su certe stufe, lunghe e basse, la gente del popolo usava anche dormire, naturalmente quand’erano spente o prossime a spegnersi.
2) Diavolo Ivanic’, cioè figlio d’Ivan: il popolino russo, in questa sua espressione attribuisce al diavolo il patronimico più comune fra i russi (di Giovanni).
3) Bevanda fermentata, fatta con farina o pane di segala e malto.