Plenilunio è un celebre racconto dello scrittore francese Guy de Maupassant (1850 – 1893). Protagonista è don Marignan un sacerdote che viveva confortato da regole e schemi consolidati. Inaspettatamente, nella vita di quest’uomo “fanatico” accade un incontro, una sorpresa che da luogo allo stupore.
“Egli fu subito distratto e commosso dalla grandiosa e serena bellezza della pallida notte.”
Guy de Maupassant, Plenilunio
Una bellezza , quella della luna, che lo pervade e lo interroga. Tutto avviene nel silenzio della notte. Un silenzio gravido di domande e riflessioni. Un percorso in aperta campagna che segue di pari passo l’incalzare delle domande che sorgono in lui. Ogni incontro autentico implica e richiede una risposta, non ci lascia indifferenti. Quale risposta darà don Marignan a questo “incontro”, agli interrogativi che porta con sé? Risposta che può anche essere rifiutata ma sicuramente è posta. Non si tratta della ricerca che segue alla domanda “che cos’è?” (per la quale il coinvolgimento emotivo e personale è ben poca cosa se non inesistente) ma del ben più coinvolgente “per chi è?” Il sacerdote si chiede infatti:
“A chi era destinato un così sublime spettacolo, una simile abbondanza di poesia gettata dal cielo sulla terra?“
Guy de Maupassant, Plenilunio
La bellezza di “un così sublime spettacolo” lo aprirà al desiderio di spirituale che alberga in ognuno di noi?
Portava bene il suo nome battagliero, don Marignan. Era un sacerdote alto e magro, fanatico, di animo retto ma in continua esaltazione. La sua fede era salda, senza oscillazioni. Era sinceramente convinto di conoscere il suo Dio, di capirne i disegni, le volontà, le intenzioni. Talvolta, mentre passeggiava a gran passi lungo il vialetto del suo piccolo presbiterio di campagna, gli nasceva nella mente una domanda: «Perché Dio ha fatto questo?». Cercava, con ostinazione, mettendosi nei panni di Dio, e finiva quasi sempre col trovare la risposta. Non era lui la persona da mormorare, in uno slancio di pia umiltà: «Signore, i vostri disegni sono impenetrabili…». Diceva tra sé: «Sono il servo di Dio, quindi devo sapere i motivi delle sue azioni, e prevenirli se non li so». In natura tutto gli appariva creato secondo una logica assoluta ed ammirevole. Domande e risposte si equilibravano sempre: l’alba esisteva perché il risveglio fosse allegro, le giornate perché le biade [foraggio per animali] maturassero, le serate per preparare al sonno e le notti buie per dormire. Le quattro stagioni coincidevano con tutte le necessità dell’agricoltura; mai lo avrebbe sfiorato il sospetto che la natura non abbia intenzioni, che tutto ciò che vive si sia dovuto piegare alle dure necessità delle epoche, dei climi, della materia. Odiava la donna, inconsciamente, la disprezzava per istinto. Spesso ripeteva le parole di Gesù Cristo: «Donna, che v’è tra me e te?», aggiungendo: «Si direbbe che anche Dio sia scontento di questa sua opera». Per lui la donna era proprio la fanciulla dodici volte impura di cui parla il poeta. Era il tentatore che aveva trascinato al peccato il primo uomo e seguitava nella sua opera di dannazione; l’essere debole, pericoloso, che misteriosamente turba. E più ancora del loro corpo, abisso di perdizione, odiava il loro animo amoroso. Aveva sentito spesso il loro amore riversarglisi addosso, e benché fosse sicuro d’essere inattaccabile, lo faceva andare in bestia quel bisogno di amare che sentiva fremere continuamente in esse. Secondo lui Dio aveva creato la donna soltanto per tentare l’uomo e metterlo alla prova. Ci si doveva accostare a lei con cautele difensive, temendola come una trappola. E difatti ella era come una trappola, con le sue braccia tese e le labbra dischiuse verso l’uomo. Era indulgente con le suore, perché i voti le avevano rese innocue; ma nonostante questo le trattava con durezza, perché sentiva sempre vivo, in fondo a quei loro cuori incatenati ed umiliati, l’eterno amore che giungeva fino a lui, benché fosse prete. Lo sentiva nei loro sguardi, più intrisi di pietà degli sguardi dei monaci, nelle loro estasi in cui si mischiava il sesso nei loro slanci verso Cristo, che lo indignavano perché si accorgeva che quello era amor di donna, amor carnale; sentiva quel maledetto amore anche nella loro docilità, nella dolcezza della voce quando gli parlavano, nei loro occhi bassi, nelle loro lacrime rassegnate quando le rimproverava con durezza. Quando usciva dal convento scrollava la sottana e se ne andava svelto svelto, come se fuggisse un pericolo. Aveva una nipote che viveva con la madre in una casetta vicino a lui. S’era ficcato in capo di farla diventare suora di carità. Era graziosa, spensierata, allegra. Quando lo zio le faceva la predica, rideva: quand’egli si offendeva con lei, lo abbracciava di slancio, stringendoselo al cuore, mentre lui senza volere cercava di svincolarsi da quell’abbraccio che gli faceva godere una dolce gioia, risvegliando in lui quel senso della paternità che dorme in tutti gli uomini. Le parlava spesso di Dio, del suo Dio, quando camminavano insieme nei sentieri in mezzo ai campi. Lei non lo ascoltava e guardava il cielo, le erbe, i fiori, con una tale felicità di vivere che le sprizzava dallo sguardo. Ogni tanto si slanciava ad acchiappare un insetto e quando l’aveva preso gridava: – Ma guarda, zio, com’è carino, mi viene voglia di baciarlo… – Quel bisogno di baciare le mosche o dei fiori irritava e sconvolgeva il sacerdote, che vi ritrovava una volta di più l’insopprimibile amore che germina sempre nel cuore femminile. Un giorno la moglie del sagrestano, che gli sbrigava le faccende di casa, gli venne a dire con una certa cautela che la sua nipote aveva l’innamorato… Provò un turbamento terribile, restò col fiato sospeso, col viso tutto insaponato, perché si stava facendo la barba. Quando si riprese e poté riflettere e parlare esclamò:
– Non è vero, Mélanie; questa è una bugia!
La contadina si posò una mano sul cuore:
– Che il Signore mi fulmini se dico una bugia, signor curato. Vi dico che si vedono tutte le sere, dopo che la vostra sorella è andata a letto. Si trovano al fiume. Se volete vederli andateci, dalle dieci a mezzanotte.
L’abate smise di grattarsi il mento e cominciò a passeggiare furiosamente, come faceva quand’era oppresso da gravi pensieri. Quando volle ricominciare a radersi si tagliò tre volte, dal naso fino all’orecchio. Restò taciturno per tutta la giornata, pieno d’indignazione e di collera. Al suo furore di sacerdote davanti all’invincibile amore si aggiungeva l’esasperazione del padre morale, del tutore, del reggitore d’anima, ingannato, derubato, preso in giro da una ragazzina; l’egoistica sensazione dei genitori ai quali una fanciulla annuncia che senza di loro e malgrado loro, ha scelto il suo sposo. Dopo cena si sforzò di leggere un po’, ma non ci riuscì; e la sua furia cresceva. Quando suonarono le dieci prese il bastone, un enorme bastone di quercia che usava sempre nelle sue uscite notturne, quando andava da qualche malato. Sorridendo guardò il grosso randello, col suo solido pugno di campagnolo gli fece fare dei minacciosi mulinelli. Ad un tratto lo alzò, e digrignando i denti lo fece piombare su una seggiola la cui spalliera, spezzata, cadde sul pavimento. Aprì la porta e si fermò sulla soglia, sorpreso dallo splendore del plenilunio, tale che di rado capitava di vederlo. E poiché la sua mente era eccitabile, come dovevano averla quei poeti sognatori dei padri della Chiesa, egli fu subito distratto e commosso dalla grandiosa e serena bellezza della pallida notte. Nel suo giardinetto immerso in quella dolce luce, gli alberi da frutta allineati disegnavano sul viale, con l’ombra, le loro gracili membra di legno appena rivestito di foglie; e il caprifoglio gigante arrampicato sul muro della casa esalava un olezzo delizioso, come zuccherino, facendo ondeggiare nell’aria tiepida e limpida della sera una sorta di anima profumata. Respirò profondamente, bevendo l’aria come gli ubriachi bevono il vino, e cominciò a camminare a passi lenti, meravigliato, estasiato, quasi dimentico della nipote. Appena fu in aperta campagna, si fermò per contemplare la pianura inondata da quella luce carezzevole, immersa nell’incantesimo languido e dolce delle notti serene. I rospi, senza interruzione, lanciavano nell’aria il loro verso corto e metallico, e gli usignoli lontani mischiavano la loro musica che fa sognare senza pensare, musica lieve e vibrante fatta per i baci, alla seduzione del plenilunio. Don Marignan riprese a camminare, sentendosi quasi mancare senza motivo. Era come improvvisamente indebolito, stremato; aveva voglia di mettersi seduto e di star fermo a contemplare, ad ammirare Dio attraverso la sua opera. In fondo, seguendo le ondulazioni del fiumicello, serpeggiava una lunga fila di pioppi. Un vapore fine e bianco, solcato, tinto d’argento e reso lucente dai raggi della luna, era sospeso intorno e sulle sponde avviluppando il corso tortuoso dell’acqua con una specie di ovatta leggera e trasparente. Il sacerdote si fermò un’altra volta, pervaso da una commozione crescente ed irresistibile. Lo prese un dubbio, una vaga inquietudine; sorgeva in lui una di quelle domande che talvolta si poneva. Perché Dio aveva fatto tutto ciò? Se la notte è destinata al sonno, all’incoscienza, al riposo, all’oblio di tutto, perché farla più bella del giorno, più dolce dell’alba e della sera; e perché quell’astro lento e incantevole, più poetico del sole, che pare destinato, per la sua discrezione, a illuminare cose troppo delicate e misteriose per la luce del sole, perché rendeva le tenebre così trasparenti? Perché il più bravo degli uccelli cantori non si riposava come gli altri e gorgheggiava nell’ombra inquietante? Perché quel mezzo velo gettato sul mondo? Perché quei brividi nel cuore, quella commozione nell’anima, quel languore della carne? Perché un tale sfoggio di seduzioni, che gli uomini non potevano vedere, se dormivano nei loro letti? A chi era destinato un così sublime spettacolo, una simile abbondanza di poesia gettata dal cielo sulla terra? Don Marignan non capiva. Ed ecco che in fondo alla prateria, sotto la volta di alberi bagnati di nebbia lucente, apparvero due esseri che camminavano stretti. L’uomo era più alto, teneva per la spalla la sua compagna e ogni tanto la baciava sulla fronte. Essi animarono d’un tratto l’immobile paesaggio che li circondava come una divina cornice fatta apposta per loro. Parevano un essere solo, a cui quella notte calma e silenziosa fosse destinata; e camminavano in direzione del sacerdote come una vivente risposta, la risposta che il suo Signore dava alle sue domande. Il sacerdote restò immobile, col cuore che gli batteva forte sconvolto; gli pareva di assistere ad una scena biblica, come gli amori di Ruth e Booz, al compiersi della volontà divina in mezzo a uno di quegli scenari grandiosi di cui parlano i sacri libri. Cominciarono a ronzargli per il capo i versetti del Cantico dei Cantici, le grida ardenti, i richiami dei corpi, tutta la calda poesia del poema ardente d’amore. «Forse Dio ha creato queste notti per velare con l’ideale gli amori degli uomini», disse tra sé. E indietreggiò davanti alla coppia allacciata che seguitava a camminare. Eppure era la sua nipote; ma si chiedeva se non avrebbe disubbidito a Dio. Dio non permette l’amore, se lo circonda d’un simile splendore? Fuggì smarrito, quasi vergognandosi, come se fosse penetrato in un tempio nel quale non aveva diritto d’entrare.
Guy de Maupassant, Plenilunio, in Racconti E Novelle, Garzanti Editore, 2004