“Lo scopo dell’arte consiste… nell’arare e nel rendere soffice l’anima [dell’uomo]
in modo che sia atta a rivolgersi al bene”
(A.Tarkovskij)
Andrej Rublëv è un film del 1966 scritto e diretto da Andrej Tarkovskij, presentato fuori concorso al Festival di Cannes 1969 . Composto di otto capitoli, un prologo e un epilogo , è ambientato nella Russia del XV secolo, periodo caratterizzato dalle lotte tra principi rivali e dalle invasoni dei Tartari.
Propongo di seguito la recensione e l’analisi della Prof.ssa Simonetta Salvestroni dell’Università di Cagliari
Simonetta Salvestroni
Andrej Rublëv di Andrej Tarkovski
In questo periodo che precede il Natale propongo il film del 1966 Andrej Rublëv pervaso di una profonda spiritualità.
Due sono i temi centrali del’opera. Uno è il cammino di Rublëv, che ricerca il significato della sua esistenza e il perché della presenza nel mondo di un male apparentemente invincibile, che egli scopre nei potenti, nel suo stesso popolo, perfino all’interno di se stesso. L’altro tema è quello del ruolo dell’arte, che ha lo scopo di rivelare e esprimere – anche nelle condizioni e vicende storiche più drammatiche e dolorose – la bellezza, la pienezza, la grazia del mondo creato, occultata ai più dall’apparente piattezza e dalle piccole e grandi difficoltà della vita quotidiana.
Gli otto episodi del film, fra loro indissolubilmente legati come tasselli indispensabili a comporre il disegno globale, colgono momenti diversi e essenziali del cammino controcorrente di Rublëv in un mondo spesso a lui indifferente o ostile.
Il prologo sul mužik che sperimenta l’ebrezza del volo e la paga sfracellandosi al suolo, introduce il tema centrale di Rublëv.
La sequenza dell’uomo che vola – afferma il regista – era il simbolo dell’audacia, nel senso che la creazione esige da un uomo il dono integrale del suo essere. Che voglia volare prima che la cosa sia diventata possibile, o fondere una campana senza avere imparato a farlo, o dipingere un’icona – tutti questi atti esigono che come premio del suo lavoro di creazione l’uomo muoia, si dissolva nella sua opera, si dia tutto intero 1.
È importante ricordare che durante la lavorazione e la programmazione di Rublëv nelle sale cinematografiche non era consentito dalle leggi sovietiche comprare in una libreria un Vangelo o un libro spirituale. Quello che Tarkovskij ha avuto a disposizione per il suo lavoro sono stati il testo biblico di famiglia più volte citato nel film, le icone appese nei musei, le opere dei grandi scrittori del passato. Aveva soprattutto una grande sete di Verità, di Bene, di Bellezza, il trinomio di cui parlano i Padri della chiesa d’oriente e i maggiori teologi ortodossi, quasi sicuramente negli anni sessanta a lui ignoti.
Rublëv, boicottato ma non proibito dalla critica ufficiale, riporta in superficie quella corrente di spiritualità che, ridotta per cinquant’anni ad un’esistenza sotteranea, percorre i testi più importanti della letteratura e dell’arte russa dal Medio Evo al ‘900.
Il film del 1966 rivela fin dalle prime inquadrature lo stile maturo del regista. Nel prologo i movimenti concitati di coloro che preparano il pallone areostatico sono seguiti dalla lenta sequenza del volo girata quasi tutta in soggettiva. Vediamo con gli occhi del contadino Efim. La macchina da presa vola con lui, sale vertiginosamente in una ripresa quasi parallela alla facciata della chiesa, osserva dall’alto con gli occhi di quest’uomo in preda alla gioia e allo stupore una mandria di cavalli in libertà, lo scorrere del fiume, la città cinta di mura, i laghi, un mondo naturale che rivela da questo punto di vista una grande bellezza. Poi, all’improvviso, scendiamo a picco fino all’impatto con la terra reso per stacchi successivi e infine col fermo immagine sul prato. Non è mostrata la morte del mužik ma la caduta, che viviamo insieme al personaggio. L’episodio si conclude con l’immagine del sacco di pelli disteso che lentamente si sgonfia. Fra l’impatto con la terra e l’ultima inquadratura, che segna il fallimento dell’impresa, si inserisce l’immagine apparentemente incongrua di un cavallo nero che beatamente si rotola sull’erba. La sequenza esprime un momento di libertà e di pienezza esistenziale che il cavallo vive nel contatto spontaneo col mondo naturale e l’essere umano nel momento in cui i suoi occhi si aprono alla scoperta di una dimensione diversa da quella quotidiana, che si percepisce nei momenti di creatività e di grazia.
La violenza brutale delle guardie, la delazione, la miseria del popolo sono al centro del primo episodio, Il buffone, in cui Rublëv insieme a due confratelli, Daniil e Kirill, si ripara da un temporale in un’isba. Sono queste le prime immagini che, dopo gli anni di ritiro, apprendimento e riflessione dentro le mura protettive del monastero 2, segnano il cammino di Rublëv verso la profonda comprensione della realtà, che illuminerà più tardi i suoi capolavori. La sosta forzata nel temporaneo rifugio e il suono cadenzato dell’acqua che scroscia creano la condizione adatta per la riflessione. Come il prologo il primo episodio è quasi tutto in soggettiva. È lo sguardo intenso di Rublëv-Solonicyn ad osservare l’interno dell’isba, a fermarsi sui volti dei contadini, delle donne, dei bambini riuniti in un momento di riposo e di festa. Attraverso una stretta finestrella rettangolare gli occhi del giovane monaco osservano due ubriachi, che si si prendono a botte, si insultano, si rorolano nel fango dell’aia melmosa. Ancora, il suo sguardo coglie per un istante in campo lunghissimo la figura nera di Kirill a colloquio con le guardie a cavallo. Successivamente osserviamo insieme al giovane Rublëv attraverso la porta aperta la punizione inflitta al buffone. A causa della sua esibizione irriverente ma innocua, l’uomo viene chiamato fuori e poi sbattuto contro un albero dalle guardie, che spaccano anche i suoi strumenti. Se i bambini che mangiano e sorridono hanno uno sguardo sereno, molti degli adulti sono già assopiti e abbrutiti dal vino, passivi di fronte alla violenza contro gli uomini e le cose, contro la quale non possono niente. Dopo la canzone chiassosa e la danza sempre più veloce, inizia un dolente cantilenante canto di donna, che accompagna le inquadrature del riposo nell’isba e la violenza delle guardie che si scatena e subito dopo si acquieta, mentre i monaci riprendono il cammino parallelo a quello delle figure a cavallo e del buffone svenuto steso sulla sella. Il canto soffuso di una spirituale dolente dolcezza, composto da Vjačeslav Ovčinnikov, autore di tutta la musica del film, ha un ruolo importante nell’episodio. Questo sommesso toccante lamento non è in sintonia col modo di sentire degli abbrutiti mužiki, né del rigido Kirill reso cattivo dalla sua frustrazione. È il giovane silenzioso Rublëv, traboccante di un ancora ingenuo amore per gli uomini, ad assorbire e ad accogliere nel proprio mondo interiore il suo primo doloroso contatto con le debolezze umane. Il percorso, che il pittore dovrà compiere per arrivare a “dare agli uomini una gioia” infinitamente più grande, è un cammino interiore che nel corso degli anni vedrà cadere tutte le sue illusioni.
La delazione, la repressione, l’impossibilità di esprimersi liberamente sono mali ben noti agli artisti russi degli anni sessanta, così come le immagini di individui torturati in modo disumano, che appaiono nelle inquadrature iniziali del secondo episodio, richiamano altre, diverse ma non meno crudeli violenze materiali, sperimentate dalla generazione precedente. Nell’episodio Teofane il Greco, il monaco Kirill sordo a queste sofferenze, frustrato dalla sua mediocrità e roso dall’invidia per il talento altrui, critica aspramente di fronte al pittore greco l’arte di Rublëv, sperando di prenderne il posto. Dopo l’episodio del buffone, la seconda smentita dei valori di fratellanza, amore, santità viene al giovane protagonista dal discorso velenoso del confratello che abbandona il monastero, perché non sopporta la scelta di Teofane, che gli ha preferito Rublëv.
La terza smentita, ben più dura, si colloca nell’episodio il Giudizio, quando alla notizia del brutale accecamento degli artigiani Rublëv macchia il muro bianco preparato per la pittura e piange. La macchina da presa inquadra le sue dita imbrattate di una tinta che richiama la vischiosità del sangue. La scena cruda e violenta dell’accecamento, alla quale Rublëv non assiste, è presentata attraverso lo sguardo di un apprendista bambino, che osserva l’indifferenza degli esecutori, lo strazio dei compagni che vagano ciechi per il bosco chiedendo pietà e si ferma infine su un dettaglio: la mano di un morto abbandonata nell’acquitrino della palude.
Nell’episodio La passione secondo Andrej il pubblico segue sullo schermo la crocifissione di Cristo mentre la voce del giovane monaco la racconta a Teofane. La “passione secondo Andrej” viene introdotta come risposta del protagonista alla dichiarazione del pittore greco di “voler servire Dio e non gli uomini”, portati a ripetere nei secoli le azioni più basse, e alla sua affermazione che “nel giorno del giudizio bruceremo tutti come tante candele” e che “se Gesù ritornasse sulla terra verrebbe crocifisso di nuovo”. Viene inquadrato un Cristo russo che compie il suo sacrificio avanzando su una terra coperta di neve in un paesaggio familiare all’autore e al pubblico del suo paese. C’è un’indifferenza generale nei confronti della piccola processione che attraversa il villaggio. I contadini, i viandanti, gli uomini a cavallo non interrompono le loro attività. Soltanto nei pochi discepoli c’è molto amore e dolore espresso dal gioco di campo-controcampo degli sguardi scambiati fra un Gesù sofferente e smarrito e le donne che a proprio rischio lo accompagnano. Nella novella Teofane il greco lo spettatore ha visto esseri umani torturati fino alla morte. Il martirio presentato in questo episodio non ha invece niente di cruento. La visione di Rublëv esprime il modo di sentire di un personaggio che ha scarsa esperienza del male, una fiducia negli esseri umani non ancora messa alla prova. L’episodio è accompagnato dalla musica di Ovčinnikov. Questo brano – come quello che ascoltiamo mentre scorrono i titoli e quello che accompagna la visione delle icone nel finale – non è stato scritto per il film. Esso fa parte insieme agli altri due dell’Oratorio per Sergej di Radonez, che l’autore aveva già composto. Tarkovskij in questo episodio ne ha scelto un frammento per esprimere la dolente spiritualità della sequenza della passione. Sono significative le parole del protagonista che evocano e accompagnano le immagini:
La gente fa il male purtroppo. Questo si sa. Cristo fu venduto da Giuda, ma ci fu pure qualcuno disposto a comprarlo… I farisei erano maestri dell’inganno e si erano impadroniti del potere e lo mantenevano approfittando dell’ignoranza del popolo. I popoli hanno bisogno di qualcuno che ricordi loro che sono popoli, come i russi, che hanno un solo sangue, una sola terra. Il male è dappertutto, ci sarà sempre qualcuno disposto a venderti per un pugno d’argento. E la sventura si accanisce contro la povera gente che lavora, lavora e porta la croce con rassegnazione, senza ribellarsi, senza cercare di difendersi. Uno si sente stanco, scoraggiato e capisce che sta per crollare e ad un tratto il suo sguardo si incontra con un altro sguardo umano e si sente rinfrancato come se avesse fatto la comunione, come se gli avessero tolto un peso di dosso … La folla, i discepoli amavano Cristo come uomo e, lasciandoli soli al loro destino, egli fece quella che era la volontà del Padre. Ma forse questo fu ingiusto e crudele.
I farisei, “maestri dell’inganno, capaci di mantenere il potere approfittando dell’ignoranza del popolo”, presentati sullo schermo di spalle mentre si allontanano in processione dalla scena del crimine da loro ordinato, anticipano il comportamento ipocrita e l’inganno del Principe 3, che il popolo russo e lo stesso Rublëv vivranno durante l’assedio di Vladimir. Le parole del protagonista sul popolo russo legano la figura di questo Cristo, seguito da pochi sgomenti e spaventati discepoli, a quella dell’artista e al suo ruolo. In particolare l’incontro da parte di chi si sente stanco, scoraggiato, vicino a crollare con uno sguardo umano, che lo “rinfranca come se avesse fatto la comunione” o se “gli avessero tolto un peso di dosso”, richiama non solo un dono proprio di Cristo, ma anche dell’artista. L’analogia appare più chiara se si confronta questo frammento del film con una dichiarazione di Tarkovskij:
Lo scopo dell’arte consiste nell’arare e nel rendere soffice l’anima (dell’uomo) in modo che sia atta a rivolgersi al bene. Entrando in contatto con il capolavoro l’uomo comincia a sentire lo stesso richiamo che ha spinto l’artista a crearlo. Allora si realizza il collegamento fra l’opera e lo spettatore e l’uomo sperimenta uno sconvolgimento spirituale elevato e purificatore 4.
Questo è appunto l’effetto dell’incrocio di sguardi fra Tarkovskij e il suo pubblico ideale, il compito che il regista si propone attraverso la vicenda di Rublëv in un film che affronta problemi cruciali nell’esistenza individuale e collettiva di ogni essere umano. Il Cristo evocato da Rublëv esprime la sua solitudine e la sua angoscia attraverso l’espressione dolente e smarrita con la quale, mentre placa la sete con la neve, osserva il piccolo gruppo di discepoli. E’ avvertibile un cambiamento interiore che si manifesta quando, dopo l’abbraccio di Maddalena, che lo ama con un attaccamento disperato e tutto umano, la macchina da presa inquadra non il volto, ma i piedi di lui che lentamente ma senza esitazione si dirigono verso la croce e poi il corpo che si distende sul legno con un’azione volontaria e consapevole, che esprime l’avvenuta accettazione del sacrificio. Le parole “ma forse è stato ingiusto e crudele lasciare gli uomini soli per fare la volontà del padre” che concludono la Passione secondo Andrej esprimono da parte del giovane Rublëv, non ancora messo alla prova dalla durezza della realtà, un dubbio che supererà solo nel finale.
Il secondo colloquio con Teofane – visione interiore di Rublëv – ha le caratteristiche dei grandi dialoghi dostoevskiani, nei quali i personaggi con totale sincerità aprono il loro animo ad un interlocutore privilegiato in un luogo fuori del tempo e dello spazio quotidiani. Rublëv lacero, in ginocchio, circondato da cadaveri massacrati in una chiesa senza tetto dentro la quale cadono fiocchi di neve, arriva a toccare in questo episodio il fondo della disperazione. Non solo ha visto calpestati con disumana ferocia i valori di amore, fratellanza, santità, in cui ingenuamente e entusiaticamente aveva creduto, ma ha scoperto la presenza del male anche dentro se stesso, quando, per salvare dallo stupro la sordomuta che egli porta con sé, ha ucciso, spinto da un impulso improvviso, un soldato russo.
Nel momento di maggiore sgomento nella chiesa profanata di Vladimir Rublëv esprime attraverso le voci che dialogano dentro di lui le contraddizioni, il senso di colpa, l’amarezza che egli si porterà dentro per anni nel periodo di silenzio che precede l’esplosione creativa. Il carattere onirico della sequenza è reso attraverso i movimenti del già morto Teofane, che infrangono i codici visivi abituali. Il personaggio esce e rientra più volte in campo dalla parte opposta a quella da cui era precedentemente uscito, dando l’impressione di muoversi come un’ombra in una dimensione che non è quella dello spazio quotidiano. A lui, ormai libero dai legami e dalle limitazioni terrene, è affidata l’enunciazione della speranza che Rublëv conserva nel profondo di se stesso dopo che le sue illusioni sono cadute.
Le parole sul popolo, già pronunciate e ripetute ora dal protagonista, acquistano qui un nuovo amaro significato nel momento in cui un male senza fondo sembra aver inghiottito la sua fiducia nell’uomo:
“Assassini, violenze, chiese messe a sacco. Penso che sia peggio di quello che dicevi tu. Fino ad ora sono stato cieco e non ho visto niente. Ho lavorato tanto per gli uomini. Ma quelli sono uomini? Noi russi abbiamo una sola terra, una sola fede un solo sangue. Quella belva del tartaro rideva e gridava: “Sgozzatevi anche fra di voi” .. hanno bruciato tutto quello che avevo fatto...”
“Anche il male fa parte della natura umana – risponde Teofane – voler distruggere il male è come voler distruggere l’umanità. Dio perdona perché tu non sei capace di perdonarti… Impara a compiere il bene, solleva coloro che sono oppressi. La verità non è così semplice come l’hai immaginata tu”.
Il pittore greco, già morto alle sue debolezze e fragilità terrene, esprime qui – a proposito del male, della sofferenza, del perdono – una profonda verità, anticipando quello che Rublëv comprende a pieno soltanto nell’episodio conclusivo del film. E ancora, al lamento del protagonista, – (“Russia, Russia sempre disposta a sopportare e a subire tutto! Quanto potrà durare?”) – Teofane risponde: “Forse anche in eterno. Eppure ci sono cose belle al mondo”. Mentre dice queste parole, i suoi occhi fissano un’icona rimasta intatta nella chiesa profanata, immagine di bellezza creata dall’uomo nella quale, anche dopo gli stupri, gli omicidi, i saccheggi, continua a risplendere la luce dello Spirito. A questo punto sul volto di Andrej appare un tenue sorriso, mentre Teofane tende il braccio in avanti come se volesse prendere in mano i fiocchi di neve che cadono dal tetto distrutto dall’incendio 5. La sequenza si conclude con l’immagine del volto della sordomuta, che dorme in mezzo ai cadaveri mantenendo intatta la sua ingenua serenità. Come è messo in evidenza nel film, Rublëv non rifiuta di immergersi nei dolori del mondo e di accostarsi perfino alle sue tentazioni, come fa nell’episodio la Festa, perché la missione, alla quale secondo Tarkovskij è stato predestinato, è capire gli uomini fino in fondo e portare loro attraverso i suoi dipinti la verità, la luce e la misericordia del mondo di Dio.
Guardandomi in dietro ed esaminando i film che ho fatto finora – scrive il regista – mi sono accorto che ho sempre voluto parlare di persone interiormente libere … ho raccontato la storia di uomini apparentemente deboli, ma ho parlato della forza di questa debolezza 6.
Per arrivare a una comprensione profonda di se stesso e della realtà, Rublëv, dopo il trauma subito, ha bisogno di anni di silenzio e di un’altra grave perdita, quella dell’ultimo essere che gli era rimasto vicino: la sordomuta che in un periodo di carestia, abbagliata dai doni dei tartari, abbandona lui e il monastero.
La storia della vita di Rublëv – scrive Tarkovskij – per noi è in sostanza la storia di una concezione insegnata, imposta che, dopo essere bruciata nell’atmosfera della realtà vivente, risorge dalle ceneri come una verità fortemente nuova, appena svelata 7.
Il finale luminosamente consolante è legato ad una concezione espressa più volte dal regista negli scritti e nelle opere:
Tutti i miei film, in un modo o nell’altro, parlano del fatto che gli uomini non sono soli e abbandonati in un universo vuoto, che essi sono legati da un’infinità di fili al passato e al futuro, che ogni uomo col proprio destino realizza un legame col destino generale degli uomini8.
Lo vediamo nell’ultimo episodio del film, la Campana. Qui Rublëv si trova ad assistere alla spossante fatica di un ragazzino, che procedendo a tentoni, spinto da una disperata forza interiore, si dedica fino allo sfinimento al compito di continuare la tradizione perduta e fondere la campana. Contemporaneamente il protagonista è testimone di altri episodi che lo scuotono profondamente e che vengono tutti a concentrarsi nel tempo breve fra il lavoro di preparazione della campana e i suoi primi rintocchi. È in questo luogo che il monaco incontra il buffone del primo episodio, pronto a picchiarlo perché lo ritiene colpevole della punizione subita e il pentito Kirill, la cui presenza si rivela provvidenziale. Egli si fa infatti carico pubblicamente della delazione compiuta e confessa l’invidia nei confronti del confratello, nata dalla frustrazione per la sua mediocrità e dalla distruttività da questa generata. E’ proprio Kirill a pregare in ginocchio Rublëv di riprendere a dipingere: “Io sono un verme. Tu hai ricevuto dal Signore il tuo talento. Non macchiarti del peccato del rifiuto”.
Kirill, Boriska, Rublëv influenzano in questo episodio l’uno il destino dell’altro, si sostengono e si aiutano a vicenda nello sforzo di portare a termine le loro diverse missioni. Se il compito di due di questi personaggi è “portare la gioia agli uomini”, l’amarezza di Kirill per la sua mancanza di talento si acquieta, dopo le dure prove subite, in una sincera umiltà e sottomissione, che gli consente di adempiere la sua modesta ma necessaria missione: scuotere il confratello e farlo riflettere sul peccato che egli commette, sprecando il dono da lui ricevuto da Dio. Il protagonista comprende finalmente che ad essere imperfetto e colpevole non è soltanto il mondo esterno, ma lo stesso essere umano. La via per giungere alla salvezza non è tanto fuori quanto dentro di lui. Per scoprirlo gli uomini hanno bisogno di entrare in contatto con una dimensione di armonia e di bellezza. Ad annunciarla nel film è il primo rintocco della campana nata dalla terra per dare vita al suono dello spirito che ritmerà la vita dei fedeli. Ad incarnarla ed esprimerla sono la Trinità e le altre icone che il protagonista si accinge a dipingere.
Nell’ultima scena in bianco e nero, dopo i primi rintocchi della campana, Rublëv rompe finalmente il silenzio e consola Boriska, che piange a singhiozzi in solitudine, stremato dallo sforzo sostenuto. Lo hai visto anche tu, è andato tutto bene. Su, che ti prende? Andremo via insieme, tu e io. Tu fonderai le campane, io dipingerò icone. Andremo alla Trinità. Andremo insieme. Pensa che festa per gli uomini! Hai dato loro una gioia così grande… E tu piangi? Al termine di questa sequenza coi due personaggi abbracciati, la macchina da presa passa ad inquadrare un piccolo falò che si spegne, un mucchio di braci, che dai toni neri e grigi comincia ad assumere sfumature rossastre. Dal rosso scuro di questo fuoco prendono vita le immagini a colori delle icone, dopo che l’artista ha espresso a voce alta la decisione di riprendere a dipingere. Nelle ultime scene a colori vengono inquadrati prima luminosi, preziosi disegni geometrici, particolari delle vesti dalle tonalità brillanti o delicate per passare poi alle figure e a dettagli dei dipinti: la cupola di una chiesa, un angelo, un asino, gli uomini a cavallo dell’Entrata in Gerusalemme, poi il Salvatore circondato da cherubini, le figure dei tre apostoli scagliati a terra accecati dalla luce divina nella Trasfigurazione, il particolare di Giovanni Battista chino su Gesù nel Battesimo di Cristo, un primo piano di Maria dolorosamente assorta nei suoi pensieri nella Natività. È un mondo umano popolato di uomini, donne, animali domestici, illuminato dalla luce di una dimensione più alta che lo accompagna e lo pervade. Le immagini sono accompagnate da una musica sommessa, poi da un coro che contribuisce all’atmosfera di spiritualità e di preghiera della sequenza. Tarkovskij sceglie di percorrere a ritroso le scene degli episodi gloriosi della vita di Cristo dall’entrata in Gerusalemme alla nascita a Betlemme per arrivare infine al momento fuori del tempo e della storia che è l’inizio di tutto.
Per riprendere la Trinità il regista inizia con un primo piano sui giochi di luce, le trasperenza, gli splendidi colori delle vesti degli angeli. Scende poi sulle mani e attraverso una sovrapposizione di immagine sui piedi, la cui prospettiva rovesciata dà l’impressione di una leggerezza priva di peso. Di qui risale lentamente verso il calice che è al centro della mensa, a cui è dedicato un lungo primo piano. Ancora, attraverso una sovrapposizione d’immagine vengono mostrati la casa di Mamre 9, poi il volto e le spalle dell’angelo centrale per scendere di nuovo sul calice e risalire infine sul viso dell’angelo. Il dipinto sembra prendere vita, raccontare una storia che ha il suo centro nel calice, al quale la macchina da presa finisce sempre col tornare.
Il monaco Rublëv ha potuto dipingere l’abbagliante luminosità di queste immagini, che da secoli nutrono lo spirito di chi le contempla, perchè ha ritrovato e riempito di significato l’amore per la vita e per gli uomini che aveva ingenuamente affermato nella prima parte del film.
“Più il male è presente nel mondo – afferma Tarkovskij- più è necessario creare la bellezza. È senza dubbio più difficile, ma è anche più necessario” 10.
Nel finale del film, mentre è inquadrata l’ultima icona, quella del Cristo Salvatore, la musica che accompagna le immagini lascia spazio al suono della pioggia che scivola sul legno grezzo della parte destra del dipinto e bagna infine nell’ultima scena alcuni cavalli in un luogo deserto di incontaminata bellezza, circondato dall’acqua di un fiume. Le immagini che concludono il film legano, attraverso un implicito rapporto analogico suggerito allo spettatore, la bellezza delle opere artistiche fatte dall’uomo a quella del mondo naturale, opera della crezione, entrambi vive e luminose nonostante le violenze e le atrocità commesse dagli uomini. L’ultima inquadratura del film “è promessa di armonia, visione di un paradiso che lo spettatore intravede appena dopo le tante scene di massacri, torture, crimini osservate e assimilate dal monaco pittore e in altre epoche da esseri umani di tutti i tempi”.
L’artista – afferma il regista – non può esprimere l’ideale morale del proprio tempo senza toccare le sue piaghe più sanguinanti, senza vivere e soffrire queste piaghe in se stesso 11.
Una delle ultime lettere del filosofo e teologo Pavel Florenskij, scritte nel 1937 nel lager delle isole Solovki pochi mesi prima della fucilazione, esprime una convinzione simile a questa e insieme aggiunge una riflessione importante sulla condizione dell’artista:
Puškin non è né il primo nè l’ultimo: retaggio della grandezza è la sofferenza, sofferenza che viene dal mondo esterno, e sofferenza interiore che viene da noi stessi Perché sia così è del tutto chiaro: è una sfasatura; sfasatura della società rispetto alla grandezza, e sfasatura della persona rispetto alla propria grandezza. Sì, la vita è fatta in modo che si può dare qualcosa al mondo solo pagandone poi il fio con sofferenze e persecuzioni. E più il dono è disinteressato, più crudeli sono le persecuzioni, e dure le sofferenze. Tale è la legge della vita, il suo assioma di base 12.
Tarkovksij non poteva conoscere questa pagina, ma un sottile filo ideale lega Puškin, Dostoevskij, Florenskij, il regista russo, capaci di esprimere con diversi linguaggi una profonda verità, che ognuno di loro ha sperimentato su se stesso.
Fonte: http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.it/2016/12/cinema-e-spiritualita-Rublëv-di-andrej.html
Note:
1 A.Tarkovskij, L’artista nella’antica Russia e nella Russia moderna, “Il dramma” 1970.
2 “Vedo il mondo coi tuoi occhi, ascolto con le tue orecchie” dice il giovane Rublëv al suo maestro Daniil.
3 Il Principe, spartisce la sua terra coi tartari e fa assediare e saccheggiare Vladimir e la sua chiesa per desiderio di potere e per invidia nei confronti del fratello, tradito dopo l’ipocrita bacio di pace in chiesa alla presenza del metropolita.
4 A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 1988, p.144.
5 “Non c’è nulla di più penoso che vedere la neve che cade in una chiesa” dice Teofane sottolinenado la profanazione e il saccheggio avvenuti, mentre Rublëv sorride rapito per un momento dalla candida bellezza dei fiocchi di neve.
6 A.Tarkovskij, op.cit., p. 166.
7 Ibid. p. 84.
8 Ibid. p.182.
9 Attraverso la casa e la quercia di Mamre nell’icona è inserita la reminiscenza del racconto biblico della visita dei tre pellegrini ad Abramo (Gn 18, 1-5). 10 A. Tarkovskij, Intervista, in A. de Baecque, Andrej Tarkovskij, Editions de l’Etoile, Paris, 1989, p. 107.
10 A. Tarkovskij, Intervista, in A. de Baecque, Andrej Tarkovskij, Editions de l’Etoile, Paris, 1989, p. 107.
11 Ibid., p. 152.
12 P. Florenskij, Non dimenticatemi, Mondadori, Milano, 2000, pp. 374-375.
Simonetta Salvestroni
Simonetta Salvestroni insegna Storia e Critica del Cinema presso la Facoltà di Lingue dell’Università di Cagliari. Da molti anni si occupa dei linguaggi dell’arte. A partire dal 1979 ha lavorato col semiologo russo Jurij Lotman. Ha curato, tradotto e introdotto i volumi Testo e contesto (Laterza 1980) e La semiosfera (Marsilio 1985) e ha scritto numerosi articoli su Lotman, Bachtin, la semiotica russa sulle riviste «Strumenti critici», «Intersezioni», «Alfabeta». Ha pubblicato nel 2000 il volume Dostoevskij e la Bibbia (Qiqajon), che è uscito anche in russo e nel 2004 in francese. Nel 2005 ha pubblicato il libro Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa (Qiqajon) e nel 2007 la sua traduzione russa, Il cinema di Dreyer e la spiritualità del Nord-Europa” ( Marsilio, Venezia 2011) e “Il cinema di Werner Herzog e la Germania (Archetipo libri, Bologna 2013).