Pregiudizio: giudicare prima di conoscere qualcuno o qualcosa. Dunque si tratta di conoscenza falsa e/o errata.
Chi è vittima di pregiudizi si sente offeso, umiliato, spesso è discriminato. Eppure la nostra vita, le relazioni sociali, la comunicazione ricorre spesso a stereotipi e pregiudizi. C’è chi ha preso a pretesto la presenza di nuovi italiani provenienti da altri paesi con culture, tradizioni, religioni diverse da quelle della maggioranza degli italiani per alimentare pregiudizi e stereotipi. Diversità che spesso incute paura. Diversità che viene vista come pericolo e non occasione di incontro e arricchimento. Il filosofo Jaques Derrida dice che da straniero – come il Cristo risorto sulla via di Emmaus – l’emigrante è colui che spunta all’improvviso, o che giunge inaspettato e spesso indesiderato. Lo Straniero rappresenta l’Altro da me, evento di verità che abbiamo il dovere di accogliere perché “ci viene incontro”.
Forse vale la pena riflettere su queste dinamiche per capire il mondo in cui viviamo.
Di seguito presento alcuni spot prodotti dalla Fondazione Romanì Italia a supporto della Campagna d’informazione sociale denominata TRE ERRE (3R) – 2012 / 2013 interessanti per impostare una discussione, un brainstorming .
Non aver paura, apriti agli altri, apri ai diritti from Strayorange on Vimeo.
Video per una campagna nazionale contro il razzismo, l’indifferenza e la paura dell’altro.
Approfondimenti
La paura fa stranieri
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 13 aprile 2008
Anche in Italia, come ormai in tutta l’Europa occidentale, ci troviamo di fronte a un consistente fenomeno immigratorio: milioni di uomini e donne appartenenti a mondi, etnie, culture, lingue, religioni diverse e fino a ieri di fatto estranee l’una all’altra si trovano a vivere fianco a fianco tra loro e in mezzo a un paese e una cultura «altri», che quanti lo abitano da più tempo chiamano «nostro». Fenomeno certo non nuovo quello della migrazione – basterebbe pensare all’emigrazione italiana da quando esiste lo stato unitario fino a pochi decenni or sono – ma nuova è la convergenza simultanea di diversi flussi migratori verso l’Europa. Una complessità di situazioni che desta interrogativi, dal primordiale «Perché vengono da noi? Non possono restarsene a casa loro?» al più preoccupato «Che ne sarà del nostro Paese, della nostra cultura, del nostro modo di vivere e di convivere?». Le risposte al primo tipo di domanda appaiono più facili, anche se sovente tendiamo a rimuoverle: da sempre, infatti, non è il pane che si muove verso i poveri, ma sono i poveri ad accorrere verso il pane, da sempre quando gli uomini hanno speranza di trovare una vita migliore altrove sono pronti a tentare l’avventura della migrazione, anche a costi umani altissimi. Sofferenze sempre antiche e sempre nuove accentuano periodicamente questa pressione verso l’emigrazione ma oggi paiono convogliarla con particolare intensità verso l’Europa: miseria, carestie e conflitti che affliggono l’Africa, insicurezza e violenze che spingono minoranze osteggiate a cercare asilo altrove – si pensi ai cristiani del Medioriente – guerre e lotte etniche che generano profughi e rifugiati… A questo si aggiunga anche il sogno di un mondo ricco di beni e di consumi senza limiti che i mezzi di comunicazione alimentano a dismisura in popoli appena usciti da ristrettezze economiche e libertarie, come quelli dell’Europa «d’oltrecortina». In un sapiente discorso al Parlamento europeo quattro anni fa, l’allora segretario generale dell’ONU Kofi Hannan attirò l’attenzione sul secondo tipo di problematiche suscitate dal fenomeno migratorio, quello legato alle modalità e alla qualità della futura convivenza nelle nostre società: «I migranti hanno bisogno dell’Europa – disse Hannan – ma l’Europa ha bisogno dei migranti: un’Europa ripiegata su se stessa diventerebbe più meschina, più povera, più debole, più vecchia anche. Un’Europa aperta, invece, sarà più giusta, più forte, più ricca, più giovane se voi saprete governare l’immigrazione. I migranti sono una parte della soluzione e non una parte del problema: essi non devono diventare i capri espiatori di diversi malesseri della nostra società». Oggi sono ormai molti a riconoscere la verità di queste parole e del fatto che c’è bisogno degli stranieri per poter mantenere e aumentare il benessere, che c’è bisogno della loro presenza lavorativa e contributiva perché molti lavori non sono più assunti e svolti da noi; forse meno numerosi sono quanti vedono in questa necessità anche una opportunità di arricchimento culturale, di dilatazione della democrazia, della giustizia, della pace. Ma oltre che interrogativi dalle risposte complesse, la presenza degli stranieri desta anche timori e paure, perché il diverso è veramente e radicalmente altro da me, perché era lontano e ora è vicino,
perché era sconosciuto e ora si fa conoscere e vuole conoscere. È fisiologico che la presenza dello straniero ponga noi in questione: proprio perché manca un terreno comune su cui fondare un’intesa e la conoscenza del retroterra da cui proviene, ciò che nasce immediatamente e pontaneamente di fronte allo straniero è la paura. E la paura non va derisa né minimizzata, ma presa sul serio e fronteggiata per capirla e vincerla. Ora, un dato fondamentale di cui tenere conto è che nell’incontro con lo straniero non va messa in conto solo la «mia» paura, la paura di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la «sua» paura, la paura di chi arriva in un mondo estraneo, dove non è di casa, un mondo di cui conosce poco o nulla,
un mondo che non gli offre alcuna protezione. Sì, la prima sensazione nel rapporto tra residente cheaccoglie e immigrato che arriva è la paura, anzi sono due paure a confronto. E non basta invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzare la paura: essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell’altro è una sensazione paralizzante che va superata non rimuovendola bensì assumendola. Due sono infatti i rischi nella nostra lotta contro la paura: negarne l’esistenza e quindi assolutizzare la differenza dell’altro, sacralizzare l’altro e rinunciare così alla propria cultura, oppure assolutizzare la propria identità intesa come esclusiva ed escludente, assumendo un atteggiamento difensivo dei propri valori fino a farne un presidio da difendere anche con la forza contro ogni minaccia reale o presunta all’identità culturale o religiosa. In entrambi i casi si dimentica che l’identità a livello sia personale che comunitario e sociale si è formata storicamente e si rinnova quotidianamente nell’incontro, nel confronto, nella relazione con
gli altri, i diversi, gli stranieri. L’identità infatti non è statica ma dinamica, in costante divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto costituito di molti fili e molti colori che si sono intrecciati, spezzati, riannodati a più riprese nel corso della storia. Quando il fantasma dell’identità porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell’omogeneità del sangue, della lingua parlata o della religione praticata allora si apre la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono in un autismo sociale: una mancanza di ossigeno vitale contrabbandata come nicchia dorata ma che in realtà diviene un sistema asfittico, in uno spazio in cui l’unica pianta in grado di crescere è la barbarie. Scriveva Lévinas: «Io sono nella sola misura in cui sono responsabile dell’altro». Ecco ciò che siamo chiamati a vivere nell’incontro con lo straniero al di là della paura e al cuore della nostra identità: incontrare l’altro non significa farsi un’immagine della sua situazione, ma assumersi una responsabilità senza attendersi reciprocità, fino all’ardua ma arricchente sfida di una relazione asimmetrica, disinteressata e gratuita. Solo così
la vicenda dell’incontro con lo straniero si fa occasione di umanità per tutti.
Bibbia. Il codice dell’ospitalità
di Enzo Bianchi
in “Avvenire” del 23 maggio 2010
È una ricerca insolita scavare nelle Scritture per trovare non solo esempi, esortazioni e criteri della pratica dell’ospitalità, ma anche la consapevolezza che la Bibbia stessa è luogo di accoglienza, che nello ‘sta scritto’ c’è spazio per ospitare l’altro, per contenere qualcosa e qualcuno che non si esaurisce nella lettera del testo. Del resto, la composizione stessa della Bibbia è caratterizzata da molteplici aspetti di ‘ospitalità’, a cominciare dall’accoglienza della diversità in unico testo: la Bibbia – tà biblía , i libri – è infatti una piccola biblioteca che raccoglie 73 libretti, di autori ancor più numerosi; sono libri scritti in tre lingue, ebraico, aramaico e greco; redatti nell’arco di tempo di circa un millennio e nell’ambito di un’area che va da Babilonia (l’attuale Iraq) a Roma; libri diversi come genere letterario, perché alcuni sono storici, altri poetici, altri sapienziali, altri giuridici. Sì, la Bibbia è un libro plurale, frutto dell’accoglienza da parte di un popolo di Scritture che risentono di apporti culturali diversi: la sapienza dell’Egitto, di Babilonia, dell’Assiria, delle genti di Canaan e del deserto, dell’ellenismo. L’identità della Bibbia è data da una pluralità, una molteplicità, una diversità, e da questo si dovrebbe dedurre l’impossibilità di letture fondamentaliste e uniche. Basti pensare ai vangeli: c’è un solo Vangelo, ma quattro sono i ritratti di Gesù e – va confessato – così diversi, a volte in contraddizione tra di loro; eppure sono capaci di consegnarci, nel loro insieme, un Gesù che ha fatto per noi l’esegesi di Dio, una narrazione capace di generare cristiani ancora oggi.
Ma questa diversità riconciliata non è l’unico ospite delle Scritture: fin dalle prime pagine trova spazio in esse anche la storia dell’umanità. Certo, non una storia redatta con i criteri archeologici o storiografici moderni: non vi è spazio per una cronaca dettagliata o una ricostruzione dei singoli
avvenimenti, e sovente la narrazione assume più i toni dei miti fondatori che quello degli annali cronachistici. Ma come non scorgere nei racconti biblici quegli elementi ed eventi che caratterizzano la storia di ogni civiltà, in ogni epoca e a ogni latitudine? Fin dalle prime pagine della
Genesi c’è il conflitto tra agricoltura sedentaria e pastorizia nomade, ci sono le tensioni tra città e campagna, gli abusi dei potenti e il grido dei poveri, l’esilio dei vinti e l’arroganza dei vincitori, la speranza degli umili e i sogni degli oppressi, la migrazione degli affamati e la diffidenza dei
benestanti… E c’è anche il farsi storia locale, a dimensione di una realtà minuscola, dei grandi sommovimenti del mondo allora conosciuto, le conseguenze che i piccoli pagano per le decisioni dei grandi, la voce inascoltata dei profeti e le lusinghe degli adulatori, le guerre che fanno nascere altre guerre e la pace che fatica a farsi strada e resta sempre minacciata. Tutto questo trova ospitalità nelle Scritture, trova parole che ne spiegano il senso o ne sottolineano il non senso, trova la voce di chi sa leggere al di là degli eventi per preparare un avvento, una vicenda altra, capace di ridestare la speranza e di accendere la solidarietà.
La Bibbia poi non si limita ad accogliere la storia dell’umanità, ma accanto ad essa ospita anche leggi e norme che questa storia plasmano: i comandamenti sono per l’uomo e accoglierli nella propria esistenza significa scegliere un cammino che porta su sentieri di vita piena e non in vicoli ciechi di morte. In questo senso le Scritture fanno spazio all’ascolto che è premessa indispensabile per un’obbedienza intelligente, al riconoscimento del Signore della storia che ha aperto vie di liberazione da ogni schiavitù, al sano alternarsi di lavoro e riposo e al diritto-dovere alla festa, al rispetto verso chi ha donato la vita e con essa il legame tra passato e futuro. Spazio di accoglienza che il decalogo predispone anche per un rapporto corretto e non violento con gli altri, la loro vita, iloro corpi, i loro beni, con la verità che rende liberi, con la non mescolanza di realtà che non possono essere mescolate (cf. Es 20,1-17). Leggi e norme che trovano fondamento e compimento nel comandamento nuovo dell’amore (Gv 13,34), che di tutte è pienezza (Rm 13,10): è questo precetto – che solo uomini liberi possono liberamente osservare – a costituire il contenuto essenziale di ogni vicenda, ammonimento, esortazione che la Bibbia contiene. Fare spazio ai comandi che vengono da Dio, accoglierli nelle nostre vite significa risalire alle intenzioni del Legislatore, lasciare che regni l’amore che quei comandi ha dettato.
Per questo la realtà umana che forse ha ancor più spazio nelle Scritture, quella meglio accolta è proprio il cuore, l’organo vitale che determina il nostro volere e il nostro operare: i Salmi e le preghiere disseminate in tutta la Bibbia danno voce alle gioie e alle pene dei singoli e delle
comunità, alle loro suppliche, imprecazioni, desideri di bene e istinti di vendetta, ai canti e alle lacrime, allo stupore di fronte al creato e allo sconcerto davanti all’ineluttabile. Vita e morte dell’uomo sono racchiuse in versi antichi come il mondo e lì trovano la possibilità di risuonare
sempre nuove e attuali, al di là di lingue e stagioni: anche nella Scrittura, infatti, quando si fa spazio all’altro è alla propria verità che ci si apre.
La Bibbia si rivela così uno spazio ospitale per Dio e per l’uomo. Per Dio, perché in essa è espressa la sua volontà, o meglio il suo amore per l’umanità intera: la sua Parola, infatti, ha accettato di essere contenuta nelle Sante Scritture (cf. Dei Verbum 24), dunque espressa in parole umane, in linguaggi umani, nella fragilità e nella mortalità delle parole e delle lingue degli uomini. È la ‘condiscendenza’ di Dio – secondo l’espressione dei Padri della chiesa ripresa dal concilio (cf. Dei Verbum 13) – il suo discendere, il suo abbassamento, che crea lo spazio ospitale in cui incontrare l’uomo. Ma la Bibbia è ospitale anche per l’uomo, perché appunto in essa è accolto tutto l’uomo, l’adam , il terrestre, con la sua fragilità, la sua mortalità, la sua capacità di peccare, di contraddire se stesso e Dio, ma anche la sua vocazione a essere figlio di Dio. Perciò la tradizione ha sempre detto che la Bibbia contiene Parola di Dio e parole umane, in modo che lo ‘sta scritto’ possa essere risuscitato e da esso possa sempre scaturire. La nostra «fede – ricorda l’Apostolo – nasce dall’ascolto» ( Rm 10,17) della Parola di Dio, e proprio le Sante Scritture sono il luogo in cui noi accogliamo, ospitiamo, il Dio che ci parla e in cui Dio ci accoglie parlando come un amico parla a un amico (cf. Es 33,11). Se i Padri della chiesa insistevano sulla capacità della Bibbia di essere speculum, specchio dell’umano, del popolo di Dio in alleanza con lui, oggi noi possiamo comprendere questa capacità ospitale della Bibbia. Da sempre ho meditato con molta passione sulla possibilità che ci sia un sito, un luogo visibile dell’invisibile presenza del Dio vivente. Certamente la Santa Scrittura è tale sito: per questo essa aveva trovato collocazione nell’arca, trono di Dio, sito di Dio in mezzo al suo popolo, collocato nel Santo dei santi. La Santa Scrittura è là nell’«arca della Parola», in essa contenuta perché ci sia chi le da ospitalità ascoltandola: è luogo dell’alterità accolta, di Dio da parte dell’uomo, dell’uomo da parte di Dio.
Nelle Scritture allora c’è accoglienza da parte dell’uomo di una parola o di un’azione di Dio – la rivelazione di Dio, infatti, avviene «con eventi e parole intimamente connessi» ( Dei Verbum 2); c’è accoglienza da parte del popolo di Dio di questa testimonianza in un documento scritto; c’è
accoglienza di questo ‘libro-libri’, la Bibbia, di generazione in generazione. Certo, la Bibbia come fenomeno rientra tra i ‘libri sacri’, caratterizzati cioè da definizione e strutturazione in un canone, uso liturgico, ritualizzazione dell’atteggiamento cultuale nei confronti del Libro, interpretazioni e commenti continui nella storia. Ma nel cristianesimo il Libro è opera umana, storicamente datata e geograficamente collocata, gli autori biblici hanno agito «come veri autori» ( Dei Verbum 11), risentendo dei condizionamenti culturali del loro tempo, dunque la lettera del testo è sottratta, da tutte queste mediazioni umane, alla sacralità, e deve essere sottoposta a necessaria interpretazione: il cristianesimo è così religione dell’interpretazione, religione dell’ascolto, più che del Libro.E qui permettetemi una confessione: nella mia vita di monaco almeno tre volte al giorno, nellaLiturgia delle Ore, le Sante Scritture sono da me ascoltate. L’ascolto è la prima forma di ospitalità: ascolto dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma soprattutto ascolto e canto del Salterio. Nel Salterio mi sento accolto con tutta la mia umanità, la mia storia, la mia fatica, la mia gioia, i miei tentativi di amare e di accettare di essere amato. Nel Salterio trovo tutto l’uomo e da esso mi sento accolto in un modo in cui non mi sento accolto neppure da quelli che vivono con me. Il Salterio è lo spazio, l’unico spazio in cui non mi sento solo, in cui sento che c’è uno spazio di ospitalità e di accoglienza per me, nella mia miseria, per il mio essere terrestre. Così la Bibbia mi accoglie ed è da me ospitata perché anche in me, come in ogni suo lettore, trova un sito in cui essere accolta, custodita, risuscitata, mangiata, ruminata e di nuovo detta come Parola che risuona e sa raggiungere i suoi destinatari. Sì, la Bibbia, libro esemplare di ospitalità, abbisogna di siti in cui essere ospitata: la liturgia, la lettura pregata, la predicazione, ovvero l’assemblea dei credenti, e il cuore di ogni credente. È in questi ambiti che la Bibbia vive e «cresce con chi la legge» secondo la felice espressione di Gregorio Magno, attivando un dinamismo spirituale che rende manifesto Cristo, l’ospite nascosto
nelle Scritture, colui che prepara per noi una dimora nella casa del Padre (Gv 14,2-3), dove ci accoglierà in un abbraccio di misericordia.