«Una volta scoperto lo straniero in me, non posso odiare
lo straniero fuori di me, perché ha cessato, per me, di esserlo»(Erich Fromm, Voi sarete come dèi, Ubaldini, Roma 1970, p. 124)
Propongo un piccolo excursus biblico-artistico sul tema dello straniero nella Bibbia.
Bibbia è uno spazio ospitale per Dio e per l’uomo
Ebbene, la Bibbia è uno spazio ospitale per Dio e per l’uomo. Per Dio, perché in essa è espressa la sua volontà, o meglio il suo amore per l’umanità intera: la sua Parola, infatti, ha accettato di essere contenuta nelle Sante Scritture («Sacrae Scripturae verbum Dei continent»: Dei Verbum 24), dunque espressa in parole umane, in linguaggi umani, nella fragilità e nella mortalità delle parole e delle lingue degli uomini. Ma la Bibbia è ospitale anche per l’uomo, perché in essa è accolto tutto l’uomo, l’adam, il terrestre, con la sua fragilità, la sua mortalità, la sua capacità di peccare, di contraddire se stesso e Dio, ma anche la sua vocazione a essere figlio di Dio.
La Bibbia mi accoglie ed è da me ospitata perché anche in me, come in ogni suo lettore, trova un sito in cui essere accolta, custodita, risuscitata, mangiata, ruminata e di nuovo detta come Parola che risuona e sa raggiungere i suoi destinatari. Sì, la Bibbia, libro esemplare di ospitalità, abbisogna di siti in cui essere ospitata: la liturgia, la lettura pregata, la predicazione, ovvero l’assemblea dei credenti, e il cuore di ogni credente. È in questi ambiti che la Bibbia vive e «cresce con chi la legge» («divina eloquia cum legente crescunt»: Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele I,17,8).
L’ospitalità nella Bibbia
L’ospitalità nell’Antico Testamento
Chi cerca di cogliere il messaggio presente nella Bibbia sull’ospitalità, sull’accoglienza dell’altro e sui rapporti da tessere con lui fa una prima scoperta che può destare un certo stupore. Chi è l’altro, chi è lo straniero? Israele stesso, il popolo di Dio. Israele è contrassegnato da una stranierità ontologica, che è parte essenziale del suo essere: «Mio padre era un arameo errante» (Dt 26,5), uno straniero, confessa l’ebreo che al tempio si presenta davanti a Dio.
L’ospitalità nel Nuovo Testamento
Se l’Antico Testamento ci consegna un preciso messaggio sull’ospitalità dello straniero; se in esso il diritto di ospitalità è ta
lmente sacro, non negoziabile, che un fuggitivo deve poter trovare sotto la tenda del suo nemico un rifugio, il Nuovo Testamento conferma questa pratica di ospitalità approfondendo soprattutto le motivazioni, i fondamenti che la determinano. Qui l’ospitalità (philoxenía; lett.: «amore per lo straniero») appare un’espressione fondamentale dell’amore del prossimo, una delle più alte epifanie della carità. Di più, la figura del povero e dello straniero diventano nel Nuovo Testamento figure rivelative di Dio stesso: è con loro che Dio manifesta una solidarietà radicale fino a renderli destinatari privilegiati, clienti di diritto della sua Parola e della sua azione, ed è con loro che Cristo stesso si identifica non a livello mistico, ma a livello storico, concreto, esistenzia le. Gesù è uno straniero che ha come caratteristica l’essere ospitale: non aveva casa, ma la sua persona intera creava uno spazio di accoglie nza, di ospitalità per tutti quelli che venivano a lui. Gesù viveva addirittura l’ospitalità scandalosa agli occhi dei
giusti e degli uomini religiosi, mangiando e bevendo alla tavola dei peccatori, andando ad alloggiare presso di loro, fino a sembra re amico delle prostitute e dei peccatori manifesti (cf. Mt 11,19; Lc 15,2)