Učka, novembre 1993

Novembre 1993

Il secondo viaggio.

Galleria

Ogni tanto mi fermo e penso al perché vivo certe esperienze, mi lascio coinvolgere in alcune situazioni. Si sono un volontario (anche se in Italia questo termine lo stanno snaturando e allora è volontario anche chi partecipa alle missioni delle forze armate italiane per £ 7.000.000 mensili) ma non vorrei esserlo, vorrei che non ci fosse una comunità per minori del comune, vorrei che non ci fosse una famiglia Z., (profughi che sono nella mia parrocchia e che sto cercando di aiutare) vorrei che non ci fosse un campo profughi in Istria. Non mi piace essere un volontario, qualcuno sta male, soffre, è solo, non riesce a cavarsela ha bisogno di aiuto. Purtroppo incontri alcune persone che questo se lo sono dimenticate, sembra quasi che i poveri, chi vive situazioni di disagio siano funzionali al tuo sentirti bene, meglio. Persone che hanno bisogno di fare qualcosa per sentirsi buone, per ricevere una gratificazione, dimenticandosi di mettere al primo posto la relazione con l’altro. L’altro che è sempre un TU con il quale entrare in dialogo, un rapporto da vivere con estrema gratuità. Se al primo posto metti la relazione con l’ALTRO non c’è chi è superiore e chi inferiore. Ti inserisci in una situazione per essere a servizio ed è con una logica di servizio che agirai. Altrimenti diventa vero quel detto per cui “la carità fa bene a chi la fa e male a chi la riceve”. Non puoi sentirti dire (da alcuni “volontari”): “ma come, aggiustate anche gli impianti elettrici?”; “mangiate con loro e dormite nelle loro baracche?” Questi alcuni dei commenti che la stupidità umana riesce a partorire.

Per noi non sono profughi ma amici con i quali condividere il “pane e il sorriso“.

Ho trovato queste due frasi (non mi ricordo più dove) e mi sembrano significative.

… volontario è colui che sente la responsabilità di una situazione …

… entrare in relazione con una situazione, o meglio con le persone che ne sono coinvolte, divenirne, senza perdere la propria identità, una parte e come parte integrante di questa serie di relazioni contribuire alla loro trasformazione, al loro cambiamento in direzione di una situazione più vera, autentica, piena.

Rileggevo in questi giorni alcune righe, alcune riflessioni che ho fatto prima di partire in Agosto.

“Non vado in un campo profughi per aiutare. E’ un termine che mi piace poco. Il rischio di colui che aiuta è quello di sentirsi superiore, l’altro ha bisogno, è privo di qualcosa, da solo non può farcela e allora arrivo io. […]
Non sono più bravo, più buono, migliore di tanti altri, e soprattutto non mi sento più bravo, più buono, migliore di chi non fa questa scelta. […]
Ognuno di noi ha delle responsabilità come essere umano in un brandello di spazio e di tempo nel quale si trova a vivere… è solo per essere più fedele a questa responsabilità verso me stesso e gli altri che parto”.

I luoghi delle foto

Le foto che seguono sono state scattate nella radura del bosco all’inizio del tunnel Učka (Monte Maggiore) dove in alcune baracche abbandonate e precedentemente usate dai lavoratori che costruirono il tunnel trovarono rifugio profughi provenienti dalla Bosnia.

Ex-Jugoslavia: storia di un conflitto

Sullo stesso tema vedi anche:

• Učka 1993 – Cercavamo la pace
• Učka, novembre 1993
• Učka, estate 1993
• Učka, dicembre 1993
• Dom Crvenog Križa (Rijeka)
• Vukovar – 1998
• Marina Abramović, Balkan Baroque