Scenario: una notte dell’inverno 1915, a Costantinopoli, la capitale dell’impero ottomano, ma scossa dalla pesante sconfitta che l’onnipotente ministro della Guerra, Enver Pasha, aveva subìto intorno a Natale a Sarikamish, in mezzo alle nevi del Caucaso.
Le truppe russe avevano avuto facilmente ragione della terza armata turca, male armata e male equipaggiata, e dei visionari e fragili sogni di vittoria di quel presuntuoso incapace del ministro, ansioso di emulare le gesta di Alessandro Magno e di Cesare, di cui teneva i busti nel suo studio. Confidando nel suo genio militare, si era gettato a corpo morto nella folle impresa di conquistare il Caucaso d’inverno, sfidando l’esercito russo, ben più assuefatto a quei luoghi e a quei climi. Ormai accerchiato dai cavalieri cosacchi, Enver si era visto perduto, ma era stato salvato all’ultimo istante da un manipolo di soldati armeni che lo avevano circondato e tratto in salvo.
Di ritorno a Costantinopoli, il patriarca della Chiesa armena fece celebrare in suo onore un solenne Te Deum nella cattedrale. Non solo Enver partecipò al rito, ma elogiò pubblicamente il valore dei soldati che lo avevano salvato: eppure in quegli stessi giorni, con gli altri due triumviri che governavano il paese, Talaat Pasha e Djemal Pasha, stava progettando la “soluzione finale” per tutto il popolo armeno, che sarebbe iniziata nel successivo gennaio 1915, proprio con il disarmo, la destinazione a campi di lavoro forzato e il successivo annientamento dei soldati e ufficiali di etnia armena arruolati nell’esercito ottomano.
Ho sempre pensato con strana attrazione a quell’inverno gravido di oscuri presagi e di minimi eventi luttuosi, che la minoranza armena cercava di esorcizzare facendo finta di niente, tirando avanti giorno per giorno, come se l’aggrapparsi alla quotidianità con le sue abitudini e i suoi riti immutabili, il lavoro giornaliero e il ritorno a casa, il calore della famiglia e del rassicurante cerchio esteriore del villaggio, rappresentassero un potente esorcismo che la racchiudeva in un cerchio magico dove nessun male sarebbe potuto penetrare.
Mi commuoveva l’ingenuità mite di mio zio Sempad il farmacista, della bellissima zia Noemi dagli occhi profondi che morì annegata nel Mar Nero perché aveva rifiutato di sposare l’assassino di suo marito, dei fratelli carpentieri che sognavano di andare in America: mi pareva impossibile che non avessero davvero capito niente del terribile futuro che incombeva su di loro, mi angosciava quella loro serena cecità che si rifletteva ai miei occhi nelle foto composte e solenni negli abiti della festa. Avrei voluto ritornare indietro, scuoterli dalla loro quiete sognante…
Ma in questi giorni, mentre l’anno del centenario del genocidio, della Aghèt (la catastrofe), sta per concludersi, e tanta gente in tutti paesi del mondo si è stretta agli armeni per ricordare quella tragedia lontana cent’anni ma ancora così attuale, credo di aver finalmente capito. Forse intuivano molte cose, quelli che parteciparono a quel Te Deum. Ma forse si abbandonarono alla volontà del Dio che invocavano, affidando a lui la loro salvezza. E divennero rassegnati martiri quando la scure del Grande Male si abbatté su di loro, e «morirono di tutte le morti del mondo», come scrisse il testimone tedesco Armin Wegner. La Chiesa apostolica armena li ha proclamati tutti santi, le vittime del genocidio: avevano l’umiltà di una minoranza sottomessa, ma anche la fierezza di essere stato il primo popolo a proclamarsi cristiano.
E nel suo capolavoro Notte sull’aia, una delle più struggenti poesie del Novecento, la voce straordinaria di Daniel Varujan tutto questo lo esprime perfettamente, attraverso la sua limpida parola di contadino-poeta:
È squisito per il mio spirito tuffarsi nell’onda luminosa di azzurro
naufragare – se è necessario – nei fuochi celesti;
conoscere nuove stelle, l’antica patria perduta,
da dove la mia anima caduta piange ancora la nostalgia del cielo.
Fonte: http://www.tempi.it/te-deum-laudamus-per-il-mio-popolo-mite-e-fantasticante#.VouF-2GKaBs
Antonia Arslan
Tra le più celebrate scrittrici italiane, armena di origini, Antonia Arslan è stata docente di Letteratura italiana all’Università di Padova. Con il suo primo romanzo, La masseria delle allodole, uscito nel 2004, ha inaugurato una grande indagine “storico-familiare” sulle tragiche (e a lungo censurate) vicende recenti del suo popolo, a partire dal genocidio perpetrato dall’Impero ottomano. Il terzo capitolo della serie, Il rumore delle perle di legno (Rizzoli, 17 euro), è del 2015.
Libri di Antonia Arslan