Verso il 1570, dalla Spagna re Filippo II preme perché avvenga la cacciata nel ducato milanese, che era l’unico possedimento spagnolo dove l’espulsione non era ancora avvenuta. Tuttavia, anche nel mezzo delle tensioni la gente comune manteneva buoni rapporti. Ma gli interessi e l’indebitamento crescente dopo decenni di guerre e carenze, impediscono quei provvedimenti che Spagna e Santo Uffizio reclamano, che alcune città sollecitano (Cremona) e che altre bloccano.
Le azioni dei cristiani contro gli ebrei cominciarono ad intensificarsi intorno al 1580, quando l’oratore cremonese a Milano chiese al Governatore del Ducato, di isolare gli ebrei della città e del contado in un vero e proprio ghetto. La Comunità riteneva che bastasse questo isolamento a far tornare in città numerose famiglie che l’eccessivo costo delle case cittadine aveva costretto a emigrare in campagna.
Si trovò il luogo adatto in Via Ceresole e contrada degli Argenta, ma gli ebrei scelsero la Contrada del Vescovo e vennero stabilite molte condizioni tra le quali soprattutto l’erezione a spese della città di spesse muraglie con portoni e serrature per chiudere il ghetto da ogni parte ed impedirne l’acceso durante la notte, divieto ai cristiani di abitare e lavorare in quelle zone e così via. Gli ebrei chiesero il permesso di poter commerciare in merci nuove oltre che in usate. Nonostante tutto le richieste di espulsione si infittirono, vennero raccolte testimonianze sui delitti commessi dagli israeliti, si inviarono rapporti e petizioni non solo al Re, ma addirittura al Papa perché intervenisse a far cessare lo scandalo.
Col 3 dicembre 1590 arrivò da Madrid, senza più apparente via di scampo, il decreto generale di espulsione. Uno dei maggiorenti della Comunità ebraica del ducato, avanzò immediatamente ricorso alle autorità, ottenendo che l’espulsione fosse intimabile soltanto a trenta giorni dal rimborso dei crediti. Così l’espulsione venne rinviata per sei anni buoni, perché erano molti i cittadini che avevano preso denaro a prestito dagli ebrei, innumerevoli le attività che prosperavano grazie al credito di cui godevano presso i finanziatori israeliti e la necessità di restituire in tempi brevi le somme dovute, metteva in difficoltà molte persone.
Gli ebrei se ne andarono dalla città nel marzo del 1597, dopo le cerimonie della Pasqua: molti ebrei cremonesi si allontanarono, con i loro carri carichi di mobilia e soprattutto di oro e denaro. Le operazioni di sgombero terminarono il 23 giugno di quell’anno. In città rimase solo una famiglia di ebrei che aveva l’incarico di riscuotere tutti i crediti, ma anche contro di essa la Comunità pretese immediatamente lo sfratto. La sua espulsione venne accordata da una lettera di sua maestà il primo ottobre 1597, ma mai effettuata.
Sei mesi dopo la cacciata degli ebrei, nel mese di ottobre, già si cominciavano a sentirne gli effetti: miseria e delinquenza dilagavano insieme ad altri simili guai.
Gli ebrei lombardi si sparsero un po’ in tutte le direzioni: verso i Gonzaga, gli Estensi, il Ducato Parmense e lo Stato Sabaudo, dai quali ottenevano volentieri ospitalità e verso cui portavano enormi ricchezze.