Pasażerka

Andrzej Munk, Pasażerka (La passeggera)

Era l’anno 1961, quando Andrzej Munk, regista polacco – uno dei più bravi, se non il più bravo della sua generazione – che allora aveva quarantun anni, girava ad Auschwitz il film Pasażerka. Durante le riprese il regista morì in un incidente stradale. Il materiale fu montato dai colleghi, seguendo le note che Munk aveva lasciato; uscì nelle sale nel 1963, vinse un premio a Cannes e venne lodato da Jean-Luc Godard. Munk durante le riprese abitava nell’ufficio che fu di Höss, il comandante del lager, a sua volta impiccato a due passi da quell’edificio.

L’idea di fare questo film gli era venuta grazie a Zofia Posmysz, scrittrice e prigioniera di Auschwitz. Posmysz aveva composto un racconto radiofonico, sempre intitolato Pasażerka. Quel testo a sua volta era stato frutto di un caso; in una gita a Parigi, la scrittrice si imbatté in un gruppo di turisti tedeschi, tra cui alcune donne. Una di queste aveva un tono di voce che le ricordava una SS di Auschwitz, una sua aguzzina. E la memoria e l’immaginazione cominciarono a lavorare.

La storia è questa: siamo su un transatlantico, ce n’erano molti all’epoca che dall’Europa navigavano verso l’America. La nave, per l’occasione venne usata la Batory, inquadrata nel film dall’alto, appare in solitaria nelle acque dell’oceano, una specie di microuniverso in mezzo al nulla; il gigantesco battello è quello che oggi Marc Augé avrebbe chiamato un “non luogo”, allora il termine non esisteva. La sospensione spazio temporale abbatte una dopo l’altra le barriere della rimozione e permette alla memoria di liberarsi; costringe il ricordo a svelarsi. Su questa nave dunque, Liza, una tedesca di mezza età, viaggia assieme al marito. E quella che avrebbe dovuto essere una tranquilla vacanza diventa invece un viaggio verso i segreti del passato. Liza intravede una sua coetanea polacca. Ma forse si tratta di un’ebrea, il regista non ce lo dice, e questa ulteriore incertezza sulla sua identità rende il personaggio universale nella sua particolarità. Il viso dell’altra donna non le è estraneo. Al marito, turbato, spiega che le sembra di aver riconosciuto Marta (lo stesso nome della protagonista del primo film di Jakubowska), una sua ex prigioniera. Liza, veniamo a sapere, è stata una guardia ad Auschwitz e pensa di aver salvato la vita a Marta: perché le è stata simpatica e per uno strano caso di pietà. O, almeno, è questa la versione dei fatti che lei cerca di raccontare.

Il film, come ho già detto, è stato girato ad Auschwitz. Le riprese, però, non sempre sono realistiche. Anzi, una delle prime non lo è dichiaratamente, quasi a sottolineare e a commentare il lavoro della memoria, la fatica di ricostruire il ricordo. Lo spettatore vede un cerchio di donne che si tengono per mano e portano pesanti giacche sopra la divisa a strisce da prigioniere. Si intuisce che quelle donne sono kapò. In mezzo a loro c’è una donna nuda che tenta disperatamente di rompere il cerchio. Malferma sulle gambe, si butta addosso alle kapò, ma quelle la respingono e la rimettono al centro; come per dire: da Auschwitz non c’è scampo. Il tutto si vede dall’alto, quasi fosse un sogno, un incubo, una visione di quelle che si hanno appena usciti dal sonno e ancor prima del vero risveglio; in un tempo sospeso tra la realtà e l’immaginazione; tra sogno e incubo e in cui gli artisti danno forma alle loro opere.

Pasażerka (La passeggera)

Ma subito dopo la cinepresa restituisce la realtà. Si vedono due file di soldati nazisti con i loro cani e con le kapò donne mentre tra le file corrono donne nude, prigioniere. Poi la camera inquadra il cadavere di un uomo trascinato nel fango. Siamo al racconto della vera Auschwitz, del fango e della merda, della morte non industriale e non estetizzante, ma fatta da corpi nudi, dotati di mani e gambe, di toraci e culi, di cazzi e fiche e di teste rasate; sono corpi che assomigliano a bambole rotte. La sequenza delle atrocità si fa rapida: riprese di cani da guardia, inquadrature di uomini che trascinano un enorme schiacciassi, altri cadaveri sparsi a terra e nelle pozzanghere, una donna nuda catturata e presa per la gola dalle SS con una specie di uncino di legno mentre corre, prigionieri che nel fango trascinano carrozzine vuote da neonati, una prigioniera cui vengono rasati i capelli, un’altra cui viene tatuato il numero sull’avambraccio. I ricordi di Liza sono frammentari, rapidi, brutali.

Pasażerka (La passeggera)

In un’altra scena vediamo, sempre con gli occhi di Liza, le file di prigioniere allineate durante un appello. Liza deve sceglierne una come sua collaboratrice. La macchina da presa, all’altezza degli occhi di Liza, passa in rassegna i volti. La scelta è fatta. Sarà Marta a lavorare con lei. Da qui comincia un gioco di complicità, ostilità, gelosia, di odio tra le due donne. E, sullo sfondo, in apparenza periferiche, in realtà centralissime, scorrono le immagini di uomini nudi bastonati nel fango, di una donna sbranata da un cane lupo, di bambini vestiti a festa che tenendosi per mano scendono le scale delle camere a gas. Si vede il fumo dei camini dei forni crematori; una guardia sul tetto di un edificio che si mette i guantoni di gomma, la maschera antigas, strappa il coperchio di una lattina e ne versa il contenuto, cristalli di una sostanza innominata, in un tubo che porta presumibilmente verso la camera a gas, un carro trainato da un cavallo con sopra cadaveri nudi, con una mano che sporge oltre il bordo del cassone…

Le versioni dei fatti che Liza dà al marito, mentre il transatlantico avanza nelle acque dell’oceano, sono tre. Ognuna differente dell’altra.

A un certo punto il viaggio finisce, e termina il lavoro di memoria di Liza. Noi, gli spettatori, abbiamo pochissime certezze. Sappiamo che Auschwitz è esistita, sappiamo delle camere a gas e dei forni crematori. Intuiamo che Liza non ha salvato la vita di Marta, che le cose siano andate un po’ diversamente, ma non lo sappiamo o meglio non ne abbiamo la certezza, così come non sappiamo se la donna che Liza ha visto è davvero Marta. Ci chiediamo quali fossero i meccanismi per cui alcuni uomini e donne hanno scelto di fare i sorveglianti, i torturatori, i carnefici, pur non essendo cattivi. Questo iato tra la realtà storica e l’impossibilità della narrazione, questa incertezza del ricordo rende il film di Munk credibile, oltre che un capolavoro. Munk usa Auschwitz per parlare delle nostre emozioni estreme, delle nostre paure, del nostro bisogno di dimenticare, ma anche di ricordare. E per farlo non esita a costringere lo spettatore a seguire il travaglio di una carnefice, e quindi a provare empatia nei suoi confronti.

La memoria, dice Munk, è fallace; le verità umane sono difficili da decifrare. Auschwitz è una verità storica, suggerisce, ma il suo vissuto appartiene a una sfera che implica immaginazione, sogno, fantasia. A questa ambivalenza è impossibile sfuggire. Per parlare di Auschwitz, suggerisce Munk, dobbiamo trasfigurare la realtà: la memoria, voglio ribadirlo, è una costruzione psicologica, culturale, politica.

Ma poi, non bastano Munk e Borowski e Levi: occorre affacciarsi sull’abisso.


Tratto da Wlodek Goldkorn, Il bambino nella neve, ed. Feltrinelli, 2016.

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