Il racconto del premio Nobel della pace su quei terribili giorni
di ELIE WIESEL
UNDICI aprile 1945: un ragazzino ebreo si svegliò e si rese conto d´esser vivo. 11 aprile 1945: era un giorno particolare per tutta quella gente – in gran parte ebrei, ma non solo – che si trovava a Buchenwald, un campo vicino Weimar. Weimar è una città famosa grazie a Goethe – e a causa di coloro che nel campo erano stati condannati a morte.
A partire dal 5 aprile, quando l’esercito americano aveva iniziato l’avvicinamento al campo, il comando delle SS iniziò, giorno dopo giorno, a eliminare migliaia di persone. Di 80mila che erano, ne erano rimasti 20mila circa, e questi dovevano essere fatti fuori proprio quell’11 aprile.
Quella mattina, quando si svegliarono, quei 20mila erano convinti d’esser rimasti gli ultimi esseri umani viventi di Buchenwald. I cancelli furono spalancati. Stava per avere inizio la marcia della morte. L’Angelo della Morte stava aspettando. All’improvviso accadde qualcosa. Ancora oggi non so di preciso cosa. Alcuni membri dei gruppi della resistenza interna al campo comparirono, imbracciando delle armi, e attaccarono i tedeschi. Due ore più tardi arrivò l’esercito americano.
Quando furono lì mi domandai chi, tra loro e me, fosse più reale. Mi domandai chi, tra loro e me, fosse più umano. Mi domandai al sogno di chi io stessi assistendo, se al loro o al mio. Il ragazzino ebreo di quell’11 aprile da quel momento in poi ha dedicato la propria vita a scrivere storie, a raccontare fatti, cercando di trovare le parole opportune per descrivere ciò che le parole non possono dire, cercando di mettere a frutto quel che sapeva e quel che ricordava.
Non ha cercato di destare pietà – è troppo tardi per la pietà. Non tentato di provocare commozione – è troppo tardi anche per quella. Ha cercato, cosa ancor più importante, di appellarsi a un qualche senso di giustizia, per il passato e, soprattutto, per il futuro.
Credo che accadde verso mezzogiorno, o forse l’una. Ricordo con precisione che cosa feci. Ricordo chi mi trovai accanto. Ricordo le parole che avrei voluto proferire, ma che non proferii. Ricordo che alcuni prigionieri di guerra russi rinchiusi a Buchenwald non vollero attendere oltre, impugnarono delle armi, saltarono sulle jeep americane e si precipitarono a Weimar, la città della cultura, la città dello spirito, a cercare vendetta.
Io ero troppo giovane ed ero troppo ebreo. Tutto ciò che i miei amici ed io finimmo col fare fu radunarci nelle nostre baracche e organizzare un minjan, una funzione religiosa. Che altro potevamo fare? Recitammo il Kaddish, la preghiera per i defunti. La recitammo in un modo che non potrò mai dimenticare. La recitammo nel modo in cui soltanto la gente squilibrata la sa declamare. Lì, sulle rovine della speranza umana, sulle rovine della civiltà, giovani e vecchi – esseri umani senza più età, spogliati di tutto ciò che dall’uomo è stato dato all’uomo – ci riunimmo per santificare e glorificare il nome del Signore eterno.
Lì. In quel momento. Questo è ciò che facemmo. Ora cerco di rievocare, cerco di richiamare alla memoria i fatti per capire come questa storia conduca a me, che sono un insegnante, sono uno scrittore e cerco di raccontare storie e di capire le storie che racconto. Che cosa provai quel
giorno? Che cosa provammo tutti noi quel giorno? Può sembrare sconcertante, ma è la verità: in noi non ci fu assolutamente amarezza. Non esecrammo nemmeno i nostri aguzzini. Fummo sopraffatti da un’indicibile tristezza – non solo per le persone care che ci eravamo lasciati alle spalle, o che si erano lasciate noi alle spalle, ma in un certo qual senso anche per il futuro, perché istintivamente, intuitivamente, avevamo già percepito la verità. Una verità che avrebbe aggiunto molte dimensioni alla nostra tragedia.
Ci rendemmo conto che per tutto quel tempo ci eravamo sbagliati. Avevamo ritenuto che il mondo non sapesse. Il mondo sapeva. Inoltre comprendemmo anche – ma soltanto molto più avanti – che gli assassini avevano messo in piedi un vero e proprio apparato. Non fu semplicemente questione di uccidere, come in un pogrom. L’ebreo è sempre stato abituato ai pogrom. Per molti secoli ha dovuto conviverci, qualche volta sopravvivendo, altre volte perendo in essi.
Questa volta, invece, era stata messa in moto una vera e propria macchina e – Dio ce ne scampi! – il sistema funzionava! Più tardi ancora scoprimmo anche che gli assassini non rappresentavano la feccia della società, bensì si trattava di gente che aveva studiato, molti dei quali laureati…
Ne abbiamo apprese di cose, da quell’11 aprile! I pochi di noi che sopravvissero, sopravvissero soltanto per puro caso. E tuttavia proprio perché sopravvissuti, ritenemmo che ogni minuto delle nostre vite dovesse essere consacrato ad una sorta di missione impossibile – una vocazione, una responsabilità, un obbligo. Dovevamo fare qualcosa dei nostri ricordi, di tutto quello che sapevamo. Dovevamo farne qualcosa non tanto per amore dei nostri morti, quanto per amore dei bambini che ancora dovevano nascere, ebrei e cristiani, musulmani e buddisti, bambini di ogni dove.
Si presentò un problema. Non ne avevamo gli strumenti. Come scrivere, quali parole utilizzare quando tutte le parole sono state ormai contaminate? Come restituire loro l’originale bellezza, la loro purezza? Come esprimersi a parole, quando si avverte che ognuna di esse è inadeguata, minimizza l’esperienza vissuta, più che trasmetterla? Come si può comunicare qualcosa che per sua stessa natura, se non per la sua portata, travalica ogni comprensione, immaginazione, percezione umana?
In un primo tempo i sopravvissuti dell’apparato nazista furono altresì vittime della società civile. Centinaia di migliaia di sopravvissuti, liberati nel 1945, furono obbligati a rimanere con le loro famiglie negli stessi campi dai quali erano stati liberati. Vi rimasero cinque anni, perché nessun paese volle accoglierli. A quel tempo nessuno poteva più dire “Non sapevamo”. Tutti sapevano. Dopo la liberazione i cancelli continuarono a rimanere sbarrati e, ciò nonostante, noi non provammo indignazione. Persino allora continuammo soltanto a provare tristezza.
Eravamo tristi perché la nostra storia non bastava come testimonianza; nessuno voleva recepire le nostre parole. Per molti anni i sopravvissuti furono considerati alla stregua di reietti… eppure ancora adesso credo che la storia che essi cercarono di raccontare, la loro storia grondante d’angoscia, non è circoscritta alla nostra sola vita. Riguarda me. Riguarda tutti noi…
E ora, abbiamo forse imparato a raccontarla quella storia? No, non ancora. Le parole sono tuttora troppo elusive, le immagini troppo sfocate. Non vogliamo raccontare storie tristi. Non vogliamo che vi rattristiate. Che cosa vogliamo da voi? Che siate più consapevoli, più schietti, più sensibili. Ecco, questa è la chiave giusta: maggiore sensibilità. Quando rievoco il passato, cercando di capire e di soppesare gli eventi che condussero a quel genocidio, ricordo insensibilità, indifferenza. Noi ebrei morimmo perché il mondo fu indifferente. Abbiamo appreso che l’indifferenza per il male è essa stessa male. Abbiamo appreso che se il male colpisce un popolo e gli altri non reagiscono, il male esacerba le proprie dinamiche. Vorrei che potessimo fermarlo.
Quell’11 aprile 1945 un ragazzino ebreo cercò lì a Buchenwald di capire che sogno stesse facendo. Ancora adesso sto tentando di capire se i miei sogni mi appartengono davvero. Tutti i libri che ho scritto sono in realtà il mio modo di parlare a quel ragazzino. Sento il suo sguardo fisso sul mio volto. Lo sento chiedermi: “Che cosa ne hai fatto della tua vita?”. Io scrivo. Scrivo. Scrivo.
Cercando di spiegarvi ciò che ho fatto della mia vita. Non lo so. La risposta non verrà da me. Verrà dai nostri figli.
Traduzione di Anna Bissanti
(27 gennaio 2004)