Quanta goccia c’è nell’oceano?
Quanta stella c’è nel cielo?
Quanto capello sulla testa dell’uomo?
E quanto male nel cuore?
Sándor Petöfi
Trama
«Quanta stella c’è nel cielo» non è un errore, è il primo verso di una ballata amara del giovane grande poeta ungherese. Quei versi sono tra le poche cose che Anita porta con sé, insieme a molti ricordi laceranti.
Anita non ha ancora sedici anni. È una sopravvissuta ai campi. E bella, è sensibile, le prove della vita le hanno tatuato l’anima. Sta fuggendo da un orfanotrofio ungherese per andare a vivere a casa di una zia, Monika. Eli, il giovane cognato di Monika, è venuto a prenderla al confine per compagnarla nel viaggio in Cecoslovacchia, dove si ritrova clandestina in un mondo ancora in subbuglio. Ma tutto questo a Eli non interessa: lo attira solo il corpo di quella ragazza e già sul treno, affollato di una moltitudine randagia, inizia a insidiarla in un gioco cinico e crudele.
Quanta stella C’è nel cielo è un romanzo dai risvolti inattesi. Racconta come si possa tornare dalla morte alla vita. E come, a volte, il cammino per ritrovare la speranza possa seguire trame imprevedibili. Protagonista, intorno ad Anita, è un’umanità dolente, alla ricerca di una nuova esistenza: c’è chi vuole dimenticare e chi vuole ricordare, chi mette radici e chi si imbarca per la terra promessa, chi vuole rifiutare per sempre ogni violenza e chi invece pensa che l’unico dovere è, dopo tutto, imbracciare il fucile per non essere mai più vittima.
Edith Bruck offre in queste pagine la storia palpitante di un’epoca cruciale del dopoguerra, quando tutto era in fermento tra mille difficoltà. Un’altissima meditazione sulla speranza, sulla straordinaria forza e fragilità di chi va verso una rinascita. E la grande capacità della Bruck è il risvegliare violente emozioni nel lettore.
Da questo libro il regista Roberto Faenza ha realizzato nel 2013 il film Anita B.
Biografia di Edith Bruck
Edith Bruck, di origine ungherese, è nata in una povera, numerosa famiglia ebrea. Nel 1944, poco più che bambina, il suo primo viaggio la porta nel ghetto del capoluogo e di lì ad Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen…
Sopravvissuta alla deportazione, dopo anni di pellegrinaggio, approda definitivamente in Italia, adottandone la lingua.
Nel 1959 esce il suo primo libro Chi ti ama così, un’autobiografia che ha per tappe l’infanzia in riva al Tibisco e la Germania dei Lager. Nel 1962 pubblica il volume di racconti Andremo in città, da cui il marito Nelo Risi trae l’omonimo film.
È autrice di poesia e di romanzi come Le sacre nozze (1969), Nuda proprietà (1993), Lettera da Francoforte (2004), Quanta stella c’è nel cielo (2009), Privato (2010) e La donna dal cappotto verde (2012). Nelle sue opere il più delle volte ha reso testimonianza dell’evento nero del XX secolo. Nella lunga carriera ha ricevuto diversi premi letterari ed è stata tradotta in più lingue.
Edith Bruck sostiene che la shoah non ha avuto termine il 27 gennaio 1945 con l’apertura dei cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, è continuata anche dopo. E’ continuata nell’indifferenza, a volte nell’ostilità, nella non capacità, nel rifuto di accogliere di chi era sopravvissuto, la loro storia, il loro dramma, l’indicibile. Lo stralcio che propongo di seguito mostra in modo mirabile e drammatico questo atteggiamento di chiusura e rifiuto che sembra moltiplicare il dolore e sofferenza che uno pensava di aver superato una volta terminato il conflitto.
Quanta stella c’è nel cielo
La porta si aprì e si richiuse alle nostre spalle ma Monika non c’era ancora, vi erano solo un tepore consolante e un profumo di cibo familiare. Finalmente, come una visione apparve la bella zia in una vestaglia rossa lucida stretta in vita, e mi sembrò uguale a come me la ricordavo nello specchio dell’armadio della mia mamma: perfetta curata leggera come una danzatrice sulle punte.
Invece di abbracciarmi subito, gettò un’occhiata a Eli, come se cercasse di leggere qualcosa di nuovo sul volto del cognato, poi scrutò la mia figura che la sovrastava appena e abbassando le palpebre spesse aprì le braccia come fossero ali per le maniche larghe della vestaglia, dove mi lasciai cadere e scoppiai a piangere balbettando: «Zia zia zia…».
«Monika», mi corresse subito scostandosi, «solo Monika», mi suggerì mentre tra le lacrime inutilmente cercavo sul suo volto dai lineamenti minuti qualche segno di somiglianza con mio padre: forse gli occhi, mi illusi che mio padre li avesse più allungati, forse lo sguardo con quel velo opaco che sembrava nascondere segreti, sentimenti, verità. I capelli castani?
«Ssst, niente pianti. Robyka dorme. Grazie al cielo siete qui. Via le scarpe sporche, i cappotti puzzolenti. Com’è andato il viaggio? S’è comportato bene il custode? Avrete fame e sete. Siete stanchi? Ho preparato un brodo di pollo da festa. Aron, mio marito, al contrario di Eli poco coraggioso, riesce a sottrarre qualche lampadina dalla fabbrica rendendola difettosa e io le scambio con un po’ di burro, un pollo, qualche uova. Qui è razionato tutto, si baratta. Stampano le tessere alimentari false! Pure l’Ungheria è in ginocchio e affamata? Ben gli sta, anche il tallone di Stalin! Il pericolo non manca neanche da noi, i comunisti abbondano avanzano, chissà che fine faremo? Vieni, ti faccio vedere il bagno, l’appartamento.» Mi invasero le sue parole che non lasciavano spazio alcuno per le risposte.
«Prima di partire ho rivisto la nostra casa, è stato terribile il ricordo di quell’alba…»
«Dormirai qui.» Troncò subito ciò che stavo per dirle, spalancando la porta di una grande stanza con due letti di ferro accostati.
«Mio padre…»
«Ti ho fatto spazio nell’armadio di Eli. I cappotti metteteli fuori sul balcone. Speriamo che non abbiate portato dal treno pulci, cimici o pidocchi!»
«Un gendarme, figlio del nostro vicino Szabó, te lo ricordi? Nel giardino avevano quel gigantesco albero di gelso!»
«Dormirete qui, buoni buoni. Adesso vai, Anita. Lavati bene, compresa la testa, ma non consumare troppa acqua calda. L’asciugamano a righe è tuo, hai la biancheria pulita o devo dartela io? Ah, il salotto! Vieni, te lo mostro. I mobili sono quelli che hanno lasciato qui i tedeschi, che Iddio li fulmini tutti quanti, un giorno butteremo via tutta questa robaccia.»
«Potrei dormire qui», dissi tremando all’idea di giacere accanto a Eli.
«Non serve mettere in disordine il salotto e farne un dormitorio.»
«Potrei vedere Robyka?»
«Dorme. C’è tempo.»
«Solo per un attimo.»
«Siete sporchi, bisognerebbe disinfettarvi.» La zia mi gettò un’occhiata disgustata.
«Monika», aprì finalmente la bocca Eli, «è maniaca della pulizia, attenta tu slečna, impara dalla zia.»
«Signorina», spiegò Eli.
«Niente “zia”», si voltò verso di lui Monika con uno scatto felino, ed Eli sorrise suggestionato e dispettoso.
«Sei più alta di me, sei una donna fatta.» Monika mi contemplò da capo a piedi. «Ti avrei riconosciuta solo per la somiglianza con tua madre, che era, se me la ricordo bene, più piccola, pienotta, e tu hai gli occhi verdi…»
«La mamma all’arrivo ad Auschwitz…»
«I miei vestiti ti andranno benissimo», respinse di nuovo l’argomento con uno sguardo colpevolizzante. «Abbiamo la stessa misura, sei fortunata», affermò convinta mentre pensavo che fosse pazza.
«La gravidanza non mi ha cambiata, tu come mi immaginavi?»
«…Io? Bella come quella bambola con il nasino che mi avevi regalato tu, l’unica che abbia mai avuto. L’ho nascosta in soffitta la sera prima che ci portassero via all’alba del…»
«Vieni, apro la doccia. Per la vasca ci vuole troppa acqua calda. Andiamo.»
Sconvolta, quasi paralizzata dall’accoglienza di Monika, la guardai smarrita mentre si chinava per aprire il rubinetto, e misurava il calore col gomito come fossi un bambino.
«Spogliati, spogliati», mi sollecitò e, non osando dire di no, pur arrossendo piano piano mi liberai dai vestiti sotto i suoi occhi inquisitori.
«Hai i piedi piatti. Ecco Aron, è arrivato Aron!»
Mi lasciò finalmente sola sconquassata dalla stanchezza e dalla delusione totale. Sensazioni che avevano creato un corto circuito in tutto il mio essere e sotto la doccia, più calda di come me l’aveva regolata Monika. Sorda e cieca in apnea, avvertivo la necessità urgente d’aria, ma anche il desiderio di sparire con il mio Auschwitz che non voleva nessuno, di non affrontare il futuro e di trascinarmi dietro il passato che Monika ricacciava nella mia bocca fino allo stomaco dove rimaneva come un pasto tossico e indigesto. Non c’era più nemmeno una via di ritorno per l’orfanotrofio!
Pur temendolo, come se anche l’amore fosse un pericolo, solo quel sentimento e il piacere che mi aspettavo da Eli mi diedero la voglia di respirare, di sottrarmi a quell’acqua bollente soffocante, che eliminai del tutto anche per la paura di essere rimproverata da Monika, della quale non capivo com’era, come sarebbe stata. Forse non sapeva come gestirmi? Cosa fare della mia esistenza? Magari fossi stata una portatrice di felicità, non un avanzo di Auschwitz per tutti!