Tatiana Bucci è nata a Fiume nel 1937 da padre cattolico e da madre ebrea. La sera del 28 marzo 1943, improvvisamente insieme alla sorella Andra furono internate con la mamma Mira, la nonna, la zia e il cuginetto Sergio nel “Kinderblok” di Birkenau, dopo la breve sosta presso la risiera di San Sabba. E pensare che all’epoca avevano rispettivamente appena 4 e 6 anni. Rimasero internate a Birkenau fino al 27 gennaio del 1945, giorno in cui l’Armata Rossa liberò il campo. Alla fine, tuttavia, miracolosamente riuscirono a sopravvivere allo sterminio sferrato dai nazisti e da quel momento trascorsero due lunghi anni presso alcuni orfanatrofi e case di riabilitazione per ebrei tra Praga e l’Inghilterra, finché il destino volle che riabbracciassero i loro cari. Anche la madre, infatti, con l’aiuto del fato, era riuscita a scampare all’orribile sorte del lager che l’attendeva, mentre la zia Gisella, fino al giorno della sua morte, non ha smesso un solo istante di sperare in un prodigioso ritorno di Sergio che, purtroppo, non allieterà più le sue giornate perché ad appena 7 anni, fu trasferito a Neuengamme vicino ad Amburgo, dove l’attendeva un atroce destino: divenne, infatti, una cavia per orribili esperimenti sulla tubercolosi nel campo del dottor Heissmeyer, agli ordini del cosiddetto “angelo della morte”, il famigerato Josef Mengele (Günzburg, 16 marzo 1911 – Bertioga, 7 febbraio 1979). Adesso Tatiana vive in Belgio e si dedica attivamente a trasmettere la propria testimonianza alle nuove generazione affinché “la nostra memoria continui attraverso voi”, mantenendo sempre viva la memoria su questi crimini efferati perpetrati da menti veramente diaboliche e non permettere che questi ricordi siano relegati, ineluttabilmente, nell’oblio o, più semplicemente, ridimensionati da un inverosimile negazionismo che, di tanto in tanto, sembra prendere piede qua e là mettendo in discussione il vero dramma della Shoah vissuto sulla propria pelle da tante persone innocenti “colpevoli” soltanto di professare una religione “diversa” o di far parte di un’altra etnia.
Di seguito, uno stralcio della loro storia
La sera del 28 marzo 1944 siamo state arrestate dai tedeschi e dai fascisti, accompagnati fino a casa dal nostro delatore, perché eravamo di razza ebrea. Questo triste avvenimento è stato l’inizio di un capovolgimento della nostra vita. All’epoca avevo solo 6 anni e nonostante fossero state emanate le leggi razziali, la vita della mia famiglia scorreva tranquilla. […] Andavo all’asilo, non cominciai la prima elementare come avrei dovuto, ma la frequentai più tardi a Praga dove ci portarono i russi che avevano liberato il campo di Auschwitz. Ricordo che giocavo con mia sorella e con il cuginetto Sergio che veniva a trovarci da Napoli assieme alla mamma Gisella e si trovavano a Fiume quella triste sera del 28 marzo 1944. Ricordo anche le corse al rifugio durante i bombardamenti. Papà era assente, navigava per il Lloyd Triestino e nel 1940 il piroscafo sul quale era imbarcato si trovava in Sud Africa, nelle acque territoriali inglesi, e fu fatto prigioniero. Per non dimenticare nostro padre, ogni sera, prima di rimboccarci le coperte, la mamma ci accompagnava davanti alla foto che li ritraeva nel giorno delle loro nozze per augurargli la buona notte. Poi venne Auschwitz e, una volta chiusa nel campo, mi resi conto che cos’ era ciò che ci differenziava dagli altri: la religione. Noi eravamo ebree come quasi tutti gli internati di quel campo di concentramento. Solo molti anni dopo mi resi conto cosa volesse dire essere state ebree in quel periodo.
28 Marzo 1944. Quella sera i tedeschi entrarono in casa, insieme al delatore che, per soldi, aveva fatto il nome della nostra famiglia. Noi bambini eravamo a letto. La mamma ci svegliò e ci vestì. Vedemmo la nonna in ginocchio, davanti ai soldati. Li pregava di risparmiare almeno noi. Ci caricarono sul carro bestiame, tutti ammassati – raccontano -. Arrivati a Birkenau ci divisero in due file. La nonna e la zia vennero sistemate sull’altro lato, quello dei prigionieri destinati alla camera a gas. Ci portarono nella sauna, ci spogliarono, ci rivestirono con i loro abiti e ci marchiarono con un numero sull’avambraccio. Ci trasferirono nella baracca dei bambini e lì cominciò la nostra nuova vita nel campo. Giocavamo con la neve e con i sassi, mentre i grandi andavano a lavorare. Quando poteva, di nascosto, la mamma veniva a trovarci ricordandoci sempre i nostri nomi. Questa intuizione geniale ci fu di grande aiuto al momento della liberazione, molti non sapevano più il proprio nome. Un giorno la mamma non venne più e pensammo che fosse morta, ma non provammo dolore, la vita del campo ci aveva sottratto un pezzo d’infanzia, ma ci aveva dato la forza per sopravvivere. Ogni giorno vedevamo cumuli di morti nudi e bianchi. La donna che si occupava del nostro blocco con noi era gentile. Un giorno ci prese da parte e ci disse: “fra poco vi raduneranno e vi ordineranno: chi vuole rivedere sua mamma faccia un passo avanti… voi non vi muovete. Spiegammo a nostro cugino Sergio di fare la stessa cosa, ma lui non ci ascoltò. Da allora non lo rivedemmo mai più. L’ ultimo ricordo di nostro cugino è il suo sorriso mentre ci salutava dal camion che lo portava via insieme agli altri 19 bambini, desiderosi di rivedere la mamma. Nostro cugino Sergio fu portato, assieme agli altri 19 bambini, ad Amburgo, a Neuengamme, dove si concluse tristemente la Sua breve vita. Alla liberazione parlavamo anche in tedesco, poi a Praga abbiamo imparato la lingua ceca e nel frattempo avevamo dimenticato l’italiano. Più tardi in Inghilterra, dove siamo state accolte in un centro per bambini sopravvissuti alla Shoah, abbiamo appreso l’inglese perché frequentavamo la scuola pubblica. In Inghilterra la nostra infanzia ci fu restituita, in quanto siamo state circondate da tanto affetto, premure e calore umano di persone qualificate, che erano lì per aiutarci a dimenticare gli orrori vissuti e a ridarci fiducia e speranza per il futuro. Ancora oggi siamo in contatto con la nostra Manna, diventata quasi una mamma per noi. I nostri genitori, nel frattempo rientrati in Italia, riuscirono con l’aiuto della Croce rossa a ritrovarci. La fotografia della «buona notte» ci consentì di riconoscerli e per fortuna ricordavamo i nostri nomi e il nostro cognome. La mamma ce lo ripeteva sempre quando ad Auschwitz riusciva a venire ad abbracciarci. Ormai molti anni sono trascorsi da quell’orribile periodo. Nella ritrovata famiglia non se ne parlava molto, probabilmente anche perché chi ci circondava appariva incredulo quando la mamma raccontava la sua terribile esperienza e noi bambine eravamo troppo giovani. Ma i ricordi anche adesso e forse soprattutto adesso sono ancora molto vivi. Dal giorno del ricongiungimento, stabiliti ormai a Trieste, abbiamo iniziato a vivere, ma nostra madre – confessano – non ha mai voluto parlare della nostra storia». Una storia di crimini e di orrori, d’infanzia negata i cui ricordi, ancora oggi, ritornano nitidi. «Chiudendo gli occhi si acuiscono i sensi – raccontano – rivediamo le fiamme e la cenere che uscivano dai camini notte e giorno e i cumuli di cadaveri, avvertiamo ancora la sensazione del grande freddo e l’odore nell’aria della carne bruciata. Le camere a gas e i forni crematori funzionavano di continuo. Abbiamo così avuto la fortuna di crescere, di diventare adulte, mogli, madri e ora anche nonne. Abbiamo avuto una vita con i suoi dolori e con le sue gioie. Certo, a volte i ricordi mi riassalgono improvvisi, basta un treno merci, una ciminiera o una qualche marcetta vagamente militare, ma poi la vita riprende il suo corso. Il dolore più grande però è la scomparsa di nostro cugino rimasto per sempre bambino.
Fonte: Giovanni Preziosi