Scrive nel suo Diario il 29 dicembre 1957, a 5 anni dal suo interrogativo sul senso dello scrivere in rapporto al vivere, vissuti intensissimamente fra pagine scritte e attività formative fra gli studenti e i novizi del suo monastero: “In un mondo come il nostro, dalla complicata struttura economica, non si pone più la questione se mio fratello sia un cittadino dello stesso mio paese. Dal momento in cui l’economia di un altro stato è dipendente dagli interessi economici del mio, io sono responsabile per quelli che hanno bisogno e che vivono in quello stato. In che consiste questa responsabilità? A che cosa mi obbliga?” (p. 158 s.).
Sono interrogativi che si rivolge come monaco di vita contemplativa, ma ne sa già la risposta che normalmente viene data e che i suoi superiori puntualmente ripeteranno quando negheranno l’autorizzazione, alla fine del 1962, di pubblicare la raccolta degli articoli sulla pace, perfino dopo la Pacem in terris del 15 aprile 1963 che per fortuna, scriverà all’abate generale, non è dovuta passare attraverso “i nostri censori”: compito di un monaco di vita contemplativa è “pregare”, soffrire. È così che si salva la propria identità, che si da ragione della necessità nella vita della chiesa di una parte “contemplativa” che controbilanci il pericolo della dispersione dietro problemi contingenti. Finché dura la distinzione, come può una persona che si sente “responsabile” dell’altro in stato di bisogno scindere in se stesso tale responsabilità, col pericolo non tanto ipotetico di concorrere alla “cooperazione con coloro che sfruttano”?
Fonte: OraSesta