Era partita dalla Romania per passare il Natale con suo marito, immigrato a Roma. S’era portata il suo bambino di tre anni. Possiamo immaginarci il viaggio di questa madre, su uno di quei pullman malconci che portano in Italia la gente dell’Est. Lei con il figlio in braccio, scomoda sugli stretti sedili, pigiata fra i bagagli gonfi di altri migranti; e il sonno che nella notte ha il sopravvento, e il bambino stanco di stare fermo che piange. «Vedrai, vedrai com’è bella Roma, è una meravigliosa città, come non ne hai mai viste». Forse questo diceva la giovane romena al suo bambino, in viaggio verso l’Italia, l’Occidente, la parte “giusta” del mondo guardata a lungo con desiderio in tv, come in un sogno. Ma Roma, San Pietro, il Colosseo, sono rimasti miraggi. La “casa” che li aspettava era una baracca di lamiere in un bosco, a Castelfusano. Né luce né riscaldamento, né una strada: solo fango, e attorno, uguali, le capanne di altri cento disgraziati. Più che una casa, una stalla quella in cui si sono stretti a Natale la donna, suo marito e il bambino, come in un presepe miserabile e ignoto. All’alba poi, finita in fretta la festa, il marito è partito in cerca di lavoro, qualsiasi lavoro, facchino, lavavetri, a qualunque cosa disposto. La madre e il bambino, soli nella baracca. Con il freddo della notte nelle ossa, lei cerca di fare un fuoco. Con cosa? Il legno impregnato di umidità non prende. Una bottiglia d’alcol allora, dei rifiuti. La fiamma si alza ora, alimentata dal vento. Ma non porta tepore: si allarga, divampa incontrollabile, vorace corre ed già è addosso, sui vestiti, sulle coperte, sulle mani. Il vecchio della capanna vicina resta attonito e impotente: non c’è acqua, non c’è nulla per soffocare l’incendio. Solo la madre cerca di sbarrare col suo corpo la strada al fuoco, di mettersi di mezzo fra la morte e il bambino. Le urla dei due si confondono acute, il popolo della favela si sveglia atterrito, qualcuno accorre. È tardi, tutto è consumato. Neanche i mezzi dei pompieri riescono poi a arrivare nella baraccopoli, per quei sentieri. Arrancano nel fango inquirenti e cronisti per raggiungere quell’angolo ignoto, sconosciuto pianeta a pochi chilometri da Roma, approdo di disperati di cui, pare, nessuno s’era accorto. La gente della favela nel vedere la polizia scappa. Quelli che restano mostrano ai giornalisti i palmi delle mani callose, da scaricatori a giornata, da manovali in nero che s’arrampicano, clandestini, nei cantieri di Roma. Mostrano quelle mani a dire: siamo gente che lavora. E nell’odore acre dell’incendio, nell’immobilità di due corpi sotto a lenzuola come sudari, più pesante del fumo la vergogna: vergogna perché si può morire così, alle porte di Roma, per scaldarsi in una notte freddissima. E il fatto che sia accaduto il 26 dicembre sembra un segno, nel nostro Natale di crisi sì, ma in una casa calda, e con la tavola imbandita. Il bambino di Betlemme, aveva detto poche ore prima il Papa, è «un nuovo appello rivolto a noi» perché finisca la sofferenza dei bambini. Perché si argini, almeno, il dolore degli innocenti, di tutti gli scandali il più intollerabile. Su ogni bambino, aveva aggiunto il Papa, c’è il riverbero del Bambino di Betlemme. C’è infatti, lo si vede chiaro e straziante in quello sconosciuto bambino di tre anni, di cui come di un milite ignoto non sappiamo nemmeno il nome. Morto abbracciato a sua madre, in una capanna. Che schiaffo a Roma, che schiaffo a noi, brava gente impaurita dalla recessione e però ben nutrita e coperta in questo inverno freddo. La baracca, il fango di Castelfusano, i palmi delle mani aperte della gente della favela romana non siano dimenticate. Come gli occhi, che non conosceremo, di quel bambino, felice perché andava da suo padre, a Roma, in Italia, e gli pareva di entrare in un sogno.
di Marina Corradi – Avvenire, 27 dicembre 2008