Ancora una volta è Natale: una festa che ancora oggi in occidente coinvolge in qualche modo tutti. Non che, come invece un tempo, l’intera società sia cristiana, ma Natale è pur sempre la memoria del Dio che si è fatto uomo, piccolo, alla nostra portata e quindi da un lato tutti possono accostarsi a lui ma, d’altro canto, tutti possono anche impossessarsene: non dimentichiamo che anche Erode voleva “andare ad adorare” il bambino nato a Betlemme… Siamo in un’epoca di tale indifferenza – anche perché la “differenza” cristiana non si vede più nel quotidiano – che tutti possono far festa a Natale: da chi si può rallegrare per le benefiche ricadute economiche a chi, come molti di quelli che un tempo si sarebbero definiti anticlericali, carica questa festa di significato culturale, facendone un insieme di usanze da gridare per dare tono alla “nostra” identità, occidentale e cristiana. Così vediamo alcuni aspetti esteriori del Natale ostentati come stemma, simbolo, emblema da opporre a quanti sono diversi per cultura o religione, così assistiamo al grottesco agitarsi di persone che rifiutano concretamente a qualsiasi coppia di immigrati una semplice mangiatoia, per poi brandire metaforicamente le figure del presepe come corpi contundenti contro i poveri e gli stranieri che in quelle statuine sono raffigurati.
Eppure Natale conserva intatti i suoi valori e le sue valenze, sia quelli più strettamente legati al mistero della fede, sia quelli maggiormente in sintonia con un ambiente socio-culturale che sta sì scomparendo dai nostri orizzonti, ma che ha dalla sua una grande forza evocatrice. Penso, per esempio, al mondo dei bambini, capaci ancora e sempre di attendere nel sogno e di accogliere nello stupore un evento festoso gratuito; penso al mondo rurale, quello della mia infanzia e adolescenza, ormai rarefatto da noi, ma ricco di elementi basilari che attraversano praticamente inalterati secoli e confini geografici, etnici e culturali; penso al messaggio degli angeli nella notte di Betlemme – “pace in terra agli umani, amati da Dio” – buona notizia che ridà vitalità a sentimenti nascosti, storditi o repressi nella competizione globale che ci travolge a tutti i livelli.
Per chi, come me, ha vissuto il Natale per tanti decenni e lo vive ancora oggi da credente non è facile accettare le derive cui accennavo sopra: non certo per la nostalgia di un passato che non ritorna, ma per la frustrazione del desiderio di un Natale autentico, vissuto seriamente, come mistero della fede che prende corpo in una realtà umanissima. Non posso non ricordare cos’era il Natale nella mia infanzia in un paesino del Monferrato: una festa che quando si profilava all’orizzonte era attesa non tanto per i regali – ben scarsi in quel difficile immediato dopoguerra… – ma per quell’aria di autenticità che portava con sé. Nell’imminenza del Natale, si misurava infatti la qualità dei rapporti con gli altri: amicizia o discordia, solidarietà o rottura in casa, tra parenti, con i vicini. E i preti allora a questo erano particolarmente attenti, e su questo ritornavano con insistenza nelle loro prediche: “tornate ad andare d’accordo, fate pace, lasciate da parte i rancori, riallacciate i contatti…”; impresa non certo facile, né si poteva pretendere che, automaticamente, il Natale portasse pace e dialogo, eppure quella festa era sentita come un’opportunità preziosa per riflettere sui rapporti umani quotidiani, sull’amicizia o sull’indifferenza o l’ostilità verso gli altri. Natale, capodanno, l’Epifania erano anche tra le rare occasioni di festa collettiva nei paesi e nelle borgate: nonostante il freddo ci si attardava per strada a scambiarsi auguri, si stava insieme attorno a un bicchiere di vino, chi lavorava lontano ritornava al paese, si approfittava dell’atmosfera per dissipare malintesi, per chiedere scusa senza sentirsi umiliati.
Simbolo di tutto questo clima – che oggi alcuni liquidano infastiditi come “buonismo” – era il ceppo, “el süc ‘d Nadal”, quel groviglio di tronco e radici tagliato alla base degli alberi che veniva lasciato seccare almeno un paio d’anni sotto il portico. Un ceppo grosso che la sera della vigilia di Natale veniva messo nel camino prima che tutti quanti andassero in chiesa per la messa di mezzanotte: ardendo lentamente avrebbe aspettato il ritorno dei padroni di casa a notte fonda e li avrebbe accolti con il suo tepore e la luce della brace per riscaldare un po’ i corpi infreddoliti assieme all’ultimo bicchiere prima di andare a letto. Quella notte anche gli uomini entravano in chiesa fin dall’inizio delle funzioni, non restavano fuori a chiacchierare per comparire solo dopo la predica – perché tanto la messa “valeva” se la si “prendeva” dal Credo in poi… No, quella notte tutti entravano subito per assistere allo “scoprimento” del Bambino sulla paglia, e non solo per il freddo e il buio: un semplice presepe, qualche candela accesa in più, due nastri colorati bastavano a evocare la bontà umana del Natale. Certo, Natale era innanzitutto la festa di chi si diceva cristiano, più o meno convinto, ma per tutti era il tempo della pace, della concordia, dell’amicizia ritrovata o da ritrovare. Questo era il grande desiderio e, infatti, se al ritorno dalla messa si trovava il ceppo che ardeva di un fuoco robusto si diceva: “buon segno, ci sarà pace in famiglia e con i vicini”; se invece faticava a bruciare ci si rammaricava: “eh, quest’anno non andrà tanto bene…”.
I cristiani, e forse è quello che oggi meno si riesce a far trasparire, cercavano di cogliere il senso del mistero della loro fede, di stupirsi di fronte a un Dio potente che erano soliti “temere” e che invece si mostrava loro in un bambino, in una condizione così semplice e comune per tante famiglie piene di bambini e che ben conoscevano la tenera fragilità di un parto nella povertà. Il Dio che benediceva e puniva, che premiava chi era buono e castigava chi non era fedele alla sua legge, quel Dio severo era in realtà un bambino fragile e indifeso, un infante che sorrideva da una culla di paglia attorniata da qualche luce e da strisce dorate. Chissà cosa davvero si riusciva a cogliere del mistero cristiano, così difficile a dirsi, così arduo da spiegare… Eppure, dopo la nascita di Gesù, Dio lo si può vedere in un uomo, Dio è ormai tra di noi, ha un volto, l’unico visibile dai nostri occhi, ed è quello di Gesù di Nazaret, un uomo come noi, ma così conforme a come Dio lo ha sempre desiderato che solo Dio stesso ha potuto darcelo quale suo racconto fedele, sua spiegazione autentica.
Dio si è fatto uomo, ma anche l’uomo è stato fatto Dio in quella nascita a Betlemme: questa è la buona notizia, il vangelo del Natale. E da questo non può che discendere la “pace” per l’umanità amata da Dio, che la tradizione latina ha chiamato “uomini di buona volontà”, persone disponibili al bene. Ecco Natale è la festa che i cristiani vivono nello stupore sempre rinnovato di accostarsi a un Dio che si è fatto uomo, prossimo a noi, che è venuto a stare in mezzo a noi, a condividere le nostre semplici vite, a soffrire delle nostre fatiche e a gioire delle nostre gioie. Proprio per questo Natale è anche la festa di quanti, anche senza riconoscere in quel figlio di un’umile coppia di Nazaret il figlio di Dio, perseguono vie di pace, di riconciliazione, di perdono per vivere insieme nella solidarietà e rendere così questo mondo migliore e più abitabile. “Uomini di buona volontà” sono quelli che non si abituano al male della guerra, del terrore, della violenza, quelli che non accettano di vedere nell’altro, nel diverso un nemico, quelli che non si sottraggono alle esigenze dell’amore e della comunione, quelli che senza ostentazione sanno perdonare e vorrebbero che il perdono non fosse solo una disposizione personale ma diventasse anche una prassi collettiva, politica. Sì, a Natale stringiamoci attorno a questi uomini e a queste donne di pace: ci scopriremo tutti più vicini tra noi e i cristiani vedranno il volto del loro Dio che si è fatto vicino all’umanità che ama.
Enzo Bianchi
Fonte: La Stampa, 24 dicembre 2004