La Stampa, 28 gennaio 2007
L’istituzione della Giornata della memoria si colora ogni anno di accenti diversi, non perché le tragedie che hanno ferito l’umanità assumono pesi diversi, ma perché muta la nostra consapevolezza e le risposte che insieme, come società, cerchiamo di dare agli interrogativi suscitati da un passato che non basta rievocare perché sia sanato. La memoria, infatti, non è un blocco monolitico di certezze indistruttibili ma un’esile trama che si tesse nell’interiorità di una persona come di una società: trama che va custodita nel profondo e, nel contempo, costantemente ripresa, ritessuta, a volte persino rammendata. E per questa delicata operazione – che ciascuno compie per sé e che una convivenza civile degna di tale nome deve intraprendere a nome dell’umanità nel suo insieme – a nulla serve dichiarare reato il negare che l’inimmaginabile è avvenuto. Serve, invece, la capacità non solo di “fare storia” ma anche, come aveva sapientemente intuito Paul Ricoeur, “fare la storia”: se infatti non si può, nemmeno con il più elaborato falso storico, “fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte”.
La memoria diventa allora “matrice di storia” nel senso che reinterpreta, rilegge – non riscrive! – la storia e consente di mutare non il passato ma il futuro, non la storia scritta ma quella ancora da scrivere. Quando, ricordando le tragedie del XX secolo, noi affermiamo “mai più”, dobbiamo essere consapevoli che non si tratta di una formula magica che, per il solo fatto di essere pronunciata, esorcizza il male commesso e lo rende irripetibile. E’ invece uno stimolo è interrogarci ogni giorno sulla verità di quanto è accaduto, sulla solidità del nostro impegno a riaffermare il “mai” – cioè a non creare ambiti e situazioni, anche solo temporanee, in cui il “no” ai crimini contro l’umanità possa essere stemperato – e sull’autenticità della nostra volontà di operare sul futuro, a breve, medio e lungo termine.
Viviamo in una società e in una stagione in cui si tende a ragionare al futuro anteriore, a spostare in un “quando” di là da venire ogni impegno e ogni scelta che costi fatica e abbia un prezzo da pagare, ma in questo modo noi ipotechiamo il futuro reale assoggettandolo a un presente che, svuotato del passato, perde ogni contenuto e ogni speranza. E’ qui che emerge la necessità di non trasformare il “dovere” della memoria in un’ossessione paralizzante: ricordare le offese e i torti subiti – personalmente, come determinato gruppo sociale o religioso, oppure come partecipi dell’unica umanità condivisa – non deve servire a riattizzarli, ad alimentare sentimenti di vendetta uguale e contraria, a ridare loro vitalità. Al contrario, la memoria del male serve a farcelo prendere in conto, a saperlo possibile all’uomo – a ogni uomo, e quindi anche a me stesso – e, quindi, a considerarlo vincibile solo attraverso un preciso, ostinato, intelligente lavoro quotidiano fatto di pensieri e azioni radicalmente “altri”.
Dire che il male si vince con il bene può apparire scontato, “buonista”, ingenuo, fonte di illusione, fuga nell’utopia. Ma operare concretamente nella società, con gli altri e i diversi da noi, per giungere insieme a discernere cosa è bene in sé e quale può essere il bene comune, cosa è meglio qui e ora e quale è il male accettabile, cosa innesca energie di vita e quali comportamenti producono morte, tutto questo significa aderire alla realtà e non sognare mondi inesistenti, significa tener conto che la nostra realtà odierna e quella che ci prepariamo per il futuro è fatta anche di mali reali del passato e di come noi abbiamo reagito e continuiamo a reagire ogni volta che questi mali si ripresentano. La memoria diventa così “intelligente”, capace cioè di collegamenti interiori tra eventi del passato e situazioni presenti, tra persone lontane e vicine, tra circostanze familiari ed estranee: una memoria che non trasforma il passato ma che, assumendolo, plasma un presente e un futuro il più possibile immunizzato dai morbi conosciuti e attrezzato per discernere e combattere le mutazioni che questi subiscono.
Sì, è un compito di alto impegno etico e spirituale, che prescinde da qualsiasi credo religioso, quello che il ricordare pone di fronte a noi: non vi è memoria a basso prezzo, non ci possono essere sconti, tanto meno verso noi stessi, nell’affrontare come esseri umani le sfide che l’umanità pone a se stessa per risollevarsi dalla brutalità e dalla barbarie verso cui ognuno di noi può sospingerla con il proprio agire quotidiano.
Enzo Bianchi
Fonte: http://www.monasterodibose.it/priore/articoli/articoli-su-quotidiani/1857-ricordare-si-ma-senza-rabbia